ciclotimia

cos’è?

È un disturbo dell’umore. Chi ne soffre, vive frequenti sbalzi emotivi che alternano esaltazione e depressione. È una forma blanda di disturbo bipolare.

 

si può guarire?

No, ma offre svariate opportunità da non lasciarsi sfuggire: le fasi ipomaniacali portano rigogliosi spunti creativi e notevoli vantaggi sociali a chi ne soffre.

 

perché un blog?

Pur colpendo 1 individuo su 100, la ciclotimia è poco nota. Questo blog offre un contesto narrativo a supporto di chi si trova a gestire tale disturbo nel quotidiano.

 

E se invece lo fosse?

Giovedì 14 giugno 2012 • Post di Mariano Tomatis

Six Feet Under è una serie televisiva di grande successo andata in onda tra il 2001 e il 2005. Scritta da Alan Ball, già sceneggiatore del film premio Oscar American Beauty, è incentrata sulla morte (deve il titolo alla profondità a cui vengono sepolte le bare) e segue le vicende di una famiglia di impresari funebri. La serie prende l’avvio dalla morte di Nathaniel Fisher, raccontando tormenti e difficoltà dei suoi famigliari e dei rispettivi compagni senza rinunciare a notevoli dosi di humor nero e tematiche surreali.


Billy Chenowith, uno dei protagonisti, soffre di un severo disturbo bipolare, una patologia di cui la ciclotimia è una forma leggera. Data la notevole accuratezza con cui vengono tratteggiati i vari personaggi, le conseguenze del disturbo sulla vita di Billy e di chi gli sta vicino sono presentate con un buon livello di dettaglio e nella loro complessità - seppure con qualche cliché qui ben analizzato.

In Six Feet Under sono un motivo ricorrente i dialoghi immaginari tra i personaggi e i defunti. Come scrive il mio amico Lenny nella sua bella recensione:

I trapassati sono […] la coscienza di chi è rimasto, una voce disincantata, spesso feroce, quasi luciferina, con cui discorrere, litigare, confrontarsi, da cui sentirsi redarguire senza pietà. L’aldilà porta con sè uno stato di illuminazione che non è la pace interiore, ma solo fredda obiettività. In Six feet under non esistono Paradiso e Inferno, ma solo un mondo parallelo ed egualitario in cui finalmente si accetta ogni aspetto dell’esistenza umana, a dispetto dei tentennamenti dei vivi.

In uno dei dialoghi più disarmanti e intensi dell’intera serie(1), David Fisher immagina di incontrare il padre Nathaniel sul balcone di casa, mentre fuori piove. David è vivo ma tormentato, e il padre - defunto da tempo - cerca di scuoterlo riportandolo alla realtà.

Nathaniel: Ti sfugge la cosa importante.
David: La cosa importante è che niente è importante. Ho ragione?
Nathaniel: Non propinarmi stronzate finto-esistenziali. Da te mi aspetto il meglio. La cosa importante ce l’hai davanti al naso.
David: Mi dispiace ma non vedo proprio niente.
Nathaniel: Non sei riconoscente, allora.
David: Riconoscente? Per l’esperienza più atroce di tutta la mia vita?
Nathaniel: Ti aggrappi al dolore come se significasse qualcosa, come se valesse qualcosa. Non vale un cazzo. Liberatene. Ha milioni di possibilità e riesce solo a lamentarsi…
David: Va bene, che cosa devo fare?
Nathaniel: Tu che dici? Puoi fare quello che ti pare, somaro: sei ancora vivo! Che cos’è in confronto un po’ di dolore?
David: Non può essere così semplice.
Nathaniel: E se invece lo fosse?(2)

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(1) "La fine del mondo", Six feet under 4x12.

(2) Nathaniel: You’re missing the point. / David: There is not point, that’s the point. Isn’t it? / Nathaniel: Don’t give me this phoney existential bullshit. I expect better from you. The point is right in front of your face. / David: Well, I’m sorry but I don’t see it. / Nathaniel: You’re not even grateful are you? / David: Grateful? For the worst fucking experience of my life? / Nathaniel: You hang onto your pain like it means something, like it’s worth something. Well, let me tell you, it’s not worth shit. Let it go. Infinite possibilities and all he can do is whine. / David: What am I supposed to do? / Nathaniel: What you do think? You can do anything, you lucky bastard. You’re alive! What’s a little pain compared to that? / David: It can’t be so simple. / Nathaniel: What if it is?

 

Insicurezza, un tratto prezioso per la creatività

Martedì 12 giugno 2012 • Post di Mariano Tomatis

L’immagine che compare sulla copertina del mio libro Numeri assassini è ispirata a un disegno di Christoph Niemann, designer statunitense che cura un originale blog sul New York Times.


A sinistra la copertina di Numeri assassini (2011). - A destra la grafica di Christoph Niemann.

In una recente intervista Niemann identifica nell’insicurezza un tratto prezioso per la creatività:

Sono piuttosto ossessionato dal modo in cui i miei lettori giudicheranno quello che faccio: che esperienza ne faranno? riusciranno a "connettersi" con le mie creazioni? percepiranno in modo chiaro il mio universo visuale? Ci penso davvero molto, e ritengo che una certa dose di insicurezza sia un tratto molto utile per qualsiasi designer, perché ti offre una particolare apertura nel relazionarti ai lettori.

Niemann ha un tocco grafico minimale, che condensa complicati processi quotidiani in pochi tratti essenziali. Chi ha il sonno disturbato troverà illuminante (e irresistibile) questo post illustrato dove sono presi in esame - in modo ironico ma incredibilmente preciso - piaceri e dispiaceri del riposo notturno.

Ecco un estratto del suo grafico che traccia l’andamento dell’agonia con il trascorrere del tempo:



Christoph Niemann, «Good night and tough luck», “Abstract Sunday”, New York Times Blog, 14.09.2009.

 

È da lì che entra la luce.

Lunedì 11 giugno 2012 • Post di Mariano Tomatis


C’è una crepa in ogni cosa.
È da lì che entra la luce.(1)

Leonard Cohen “Anthem” «The Future» (1992)

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(1) «There is a crack in everything / That’s how the light gets in.»

 

L’arte provocatoria di Stella Marrs

Domenica 10 giugno 2012 • Post di Mariano Tomatis

Ieri Alain de Botton proponeva una "gioiosa disperazione" come alternativa al pessimismo. Su tale apparente ossimoro si diverte da tempo Stella Marrs: provocatoria artista statunitense, Stella rielabora le rassicuranti immagini pubblicitarie degli Anni Cinquanta, accostandole a testi spiazzanti e dall’ironia sferzante. Molte delle sue opere sono diventate cartoline, in vendita sul suo sito personale.

Questa mi pare una buona espressione del cheerful despair di Alain de Botton:



Stiamo andando tutti all’inferno.

Stella Marrs

 

Una gioiosa disperazione

Sabato 9 giugno 2012 • Post di Mariano Tomatis

Alain de Botton è un autore da conoscere.


Al di là del pessimismo c’è un’attitudine
ben più fertile: una gioiosa disperazione.

Alain de Botton, tweet del 9 giugno 2012.

 

The Dark Side of the Moon

Venerdì 8 giugno 2012 • Post di Mariano Tomatis

Il 24 marzo 1973 i Pink Floyd pubblicarono The Dark Side of the Moon, uno degli album di maggior successo di tutti i tempi.


Il disco era il risultato di un perfetto equilibrio tra la sperimentazione musicale e la riflessione filosofica, centrate entrambe sulla metafora che dava titolo all’opera: il “lato oscuro della luna” come immagine del disturbo mentale - già cara a Ludovico Ariosto nel suo Orlando furioso (1532).

Per sonorità e versi, l’album si coniuga bene con l’attitudine ciclotimica - in particolare nelle vette e negli abissi dell’assolo di Clare Torry The Great Gig In The Sky, ma anche nella avvolgente Breathe (reprise):

Home, home again!
I like to be here when I can.
When I come home cold and tired
it’s good to warm my bones beside the fire.
Far away across the field
the tolling of the iron bell
calls the faithfull to their knees
to hear the softly spoken magic spells.

Il brevissimo pezzo musicale, variazione e ripresa di una traccia precedente, cerca invano una stabilità tra le tonalità maggiore e minore, descrivendo la calda e piacevole sensazione del ritorno tra le mura domestiche, mentre una campana lontana chiama a raccolta i fedeli.


Image by Gustave Doré in Lodovico Ariosto «Roland Furieux» Librairie Hachette, Paris (1879).

 

La locanda

Domenica 3 giugno 2012 • Post di Mewlana Jalaluddin Rumi

L'essere umano è come una locanda,
ogni mattina arriva qualcuno di nuovo.

Una gioia, una depressione, una meschinità,
qualche momento di consapevolezza arriva di tanto in tanto,
come un visitatore inatteso.

Dai il benvenuto a tutti, intrattienili tutti!
Anche se è una folla di dispiaceri
che devasta violenta la casa
spogliandola di tutto il mobilio,

lo stesso, tratta ogni ospite con onore:
potrebbe darsi che ti stia liberando
in vista di nuovi piaceri.

Ai pensieri tetri, alla vergogna, alla malizia,
vai incontro sulla porta ridendo,
e invitali a entrare.

Sii grato per tutto quel che arriva,
perché ogni cosa è stata mandata
come guida dell'aldilà.(1)

Mewlana Jalaluddin Rumi (1207-1273)

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(1) Segnalata da Annarita Eva.

 

Drama button

Giovedì 31 maggio 2012 • Post di Mariano Tomatis

Una vita piena di situazioni drammatiche ha bisogno di una colonna sonora adeguata. In tutti quei momenti, attiva il Drama Button cliccando qui:

 

Spiritualità dell’imperfezione

Domenica 27 maggio 2012 • Post di Mariano Tomatis

This Book Needs No Title (1980) è una raccolta di riflessioni paradossali del filosofo statunitense Raymond Smullyan. Una di queste dà conto delle sensazioni opposte associate ai momenti di ipomania e di depressione, spesso percepite anche da chi non è ciclotimico.


Immaginate un uomo che dica: «Oddio, sono un nulla! Sono un nulla! Sono soltanto un insignificante granello nell’immensità dell’universo. Non sono altro che un nulla!» Questo stesso uomo dice anche: «Sono umano, e gli esseri umani sono certamente superiori agli animali (perché Dio ci ha privilegiati donandoci il libero arbitrio), e gli animali sono certamente a un livello più alto delle piante. Ora, i fiori sono piante. Ma la bellezza di un fiore… che cosa può esserci di più bello e perfetto di un fiore? A un fiore non manca proprio nulla! Un fiore è quanto di più bello e perfetto possa esistere. È il culmine della creazione di Dio. Non può esserci nulla di più bello.» Ricapitolando: io sono migliore di un fiore, il fiore è assolutamente perfetto… e nonostante ciò io sono un miserabile nulla. Non è una cosa sorprendente?(1)

Al misterioso abisso che separa l’infinitamente grande e l’insignificante nulla Ernest Kurtz e Katherine Ketcham hanno dedicato il libro La spiritualità dell’imperfezione (1993). L’antologia offre pensieri che rifuggono dalla ricerca di una realtà superiore o di idoli algidi e lontani, incoraggiando piuttosto la capacità di convivere con la propria natura di esseri limitati e fragili. Come scrivono:

Non siamo né immensi né insignificanti. Esiste uno spazio per la spiritualità tra i due estremi di questo paradosso, ed è il luogo dove affrontiamo la nostra impotenza, la nostra finitezza e le nostre ferite. Nella ricerca di un significato per i nostri limiti non cerchiamo soltanto un sollievo al nostro dolore, ma una comprensione più piena di ciò che significano sofferenza e guarigione. La spiritualità nasce dall’accettazione del nostro essere frammentati, delle nostre imperfezioni.(2)

Una filosofia in linea con l’idea di "capacità negativa" espressa da John Keats (1795-1821) - il saper stare nelle incertezze, nei misteri, nei dubbi, senza essere impaziente di pervenire a fatti e a ragioni; nella condizione che William James chiamava - con una parola intraducibile - Zerrissenheit, lo stato di chi si sente frammentato. Una boccata d’ossigeno per il ciclotimico, costretto periodicamente a confrontarsi con il proprio dark mood così distante dalla perfezione.

Una spiritualità più interessata alle domande che alle risposte, più un viaggio verso l’umiltà che non una strenua ricerca della perfezione. La spiritualità dell’imperfezione inizia dal momento in cui si riconosce che cercare di essere perfetti è il più tragico errore che possa fare l’essere umano.(3)

Recensendo il libro di Kurtz e Ketcham, Maria Popova commenta:


Accettare il mistero e l’ignoto è il cuore di un’esistenza poetica, ma anche la più ragionevole delle attività intellettuali.

Maria Popova

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(1) Raymond Smullyan, This Book Needs No Title, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (NJ) 1980.

(2) Ernest Kurtz e Katherine Ketcham, The Spirituality of Imperfection: Storytelling and the Search for Meaning, Bantam 1993 (tr.it. La spiritualità dell’imperfezione, Lyra Libri, 1999).

(3) Ibidem.

 

Dannata ciclotimia

Martedì 15 maggio 2012 • Post di Mariano Tomatis



© Charles M. Schulz • Strip remixed by me.

 

Un elogio della malinconia

Domenica 15 aprile 2012 • Post di Eric G. Wilson

Eric G. Wilson è professore di inglese presso l’Università di Salem (North Carolina). Autore di svariati libri sulla indole melanconica, soffre di disturbo bipolare, una patologia di cui la ciclotimia è una forma leggera. Commentando il suo libro più famoso, Contro la felicità, Pier Francesco Borgia ha scritto: «Di felicità si può anche inaridire, mentre la melanconia, quella struggente inclinazione ad accettare la finitudine della bellezza, può soltanto innescare vivaci corticircuiti, tali da garantire un perenne stato di creatività e di capacità di ammirazione di tutto quanto ci circondi.»


La mia indole tende alla melanconia: uno stato che devo coltivare. Incoraggiando la mia natura intima, cerco di vivere secondo quella che vedo come la mia vocazione profonda. Certo, a volte è difficile seguire questa inclinazione, faticare nei campi della tristezza. Ma sento da qualche parte nel midollo delle ossa che sono nato per la melanconia. Se non mi attenessi a questa mia prerogativa, mi sentirei falso. La mia chiamata è alla terra confusa. [...]

Credo che a prescindere da quanto ci dichiariamo felici, abbiamo tutti provato questa fatica, questa tensione tra i nostri sentimenti oscuri e l’appello irritante del mondo lieto, luminoso e brillante. Siamo spossati dalla colpa che proviamo per i nostri animi melanconici. Vogliamo restare soli per poter rimuginare a piacimento. Lo vogliamo perché, quando proviamo questa preziosa confusione sulle cose dell’universo, ci sentiamo più vivi, più vitali. Sentiamo di essere con il mondo, con la sua impetuosa interazione di orribile e santo.

Si può fuggire dalla tristezza. Dalla tristezza si può trarre frutto. La sensazione di essere gettati in un mondo che non abbiamo fatto noi, di essere lacerati tra possibilità egualmente attraenti, l’angoscia cronica senza nessun motivo in particolare: se non scappiamo da queste situazioni in apparenza inevitabili, è probabile che ci venga il dubbio che questo senso di alienazione, questo limbo permanente, quest’inquietudine implacabile ci obblighino ad assumerci la responsabilità delle nostre individualità, a diventare per una volta autentici. Se ne conclude che la crisi è il crogiolo che brucia il superfluo e ci rivela la nostra essenza vitale.

Indugiare con i nostri vari straniamenti e le nostre sontuose paralisi e le nostre ansie nervose vuol dire giungere a una conclusione sorprendente: la melanconia ci mette in contatto con la nostra essenza fondamentale. Pensaci. Se sono triste e angosciato, non mi trovo a mio agio nel rapporto con gli oggetti e le persone che mi circondano. Mi agitano; le sento estranee. Mi guardo intorno in casa mia, per esempio. Vedo la lista della spesa, i volumi di Proust, il televisore, la foto di un amico. Ciascuna di queste cose è stranamente inaccessibile. Mi chiedo perché io me le sia procurate, che cosa ci facciano in casa mia. In altri momenti avrei potuto pensare che fossero parti integranti della mia vita. Adesso però, tutto di un colpo, mi paiono irrilevanti, come se volessero distogliermi da ciò che è più importante. Diventano insignificanti.

Disancorato da questi oggetti familiari, sono costretto a guardare in me stesso, nei miei più misteriosi recessi. Scrutandomi dentro mi rendo conto che sono in ultima analisi solo al mondo, che nessuno può vivere la mia vita per me: né mia moglie, né i miei genitori, né la mia cultura. In questo momento, spogliato da ciò che è familiare, raggiungo il massimo dell’intimità: io sono questa persona e non un’altra. Devo trovare le mie potenzialità uniche, i miei personali orizzonti. Sono io che devo vivere la mia vita e morire la mia morte. Nessun altro può farlo per me.

Mi allarmo. Lo so: sono un essere finito. Morirò. Le mie possibilità di vivere sono limitate. Ma proprio in questo frangente in cui mi sento circoscritto e confuso, mi è concessa un’opportunità d’oro, un invito supremo. Sono chiamato a immaginare le mie opportunità più peculiari, le mie potenzialità più proprie. Non ho che un breve attimo su questa terra. Farei bene a sfruttare al meglio questo mio tempo. Accettare la mia morte è un trauma che mi induce a vivere. Percepire la mia finitezza mi porta a immaginare infiniti orizzonti possibili.

È un paradosso, ma tenere un occhio rivolto alla morte mi fa entrare nella vita; sentirmi totalmente solo mi fa percepire la comunione con tutti gli esseri viventi. Soffrire un’angoscia inevitabile mi impone un trauma vitale. Ho capito che essere vivo vuol dire rendersi conto della magnifica polarità dell’universo. La vita cresce dalla morte e la morte dalla vita; la turbolenza genera strutture armoniose e l’ordine si dissolve in caos vibrante. Il cosmo è vario, confuso, intricato e contraddittorio. Di colpo non mi sento più come se stessi facendo un eterno zapping, schiacciando il pulsante ogni sera anche se ho già visto tutto quello che lampeggia sullo schermo. Al contrario, non so che cosa verrà dopo. Sono sul chi vive. Sono teso, incompleto e triste, ma sto cercando di immaginare poesie più belle del movimento silenzioso e subdolo degli squali e sinfonie più altisonanti del canto degli uccelli solitari nell’estate. Cerco di concepire un cosmo dal caos.

So che potrebbero sembrare pensieri malsani, ma non è questa l’intenzione. Sono idee che invece vorrebbero essere vitali, eccitanti, liberatorie. La morte quest’ottica non è solo declino o putrefazione o tomba. È un appello alla vita, una scossa elettrica che ci impone di esplorare, con vigore e intelligenza, le nostre probabilità e i nostri rischi.

Eric G. Wilson, «Contro la felicità», Guanda, Parma 2009.

 

Una mente inquieta

Domenica 1 aprile 2012 • Post di Kay Redfield Jamison

Kay Jamison è uno dei massimi esperti al mondo di disturbo bipolare, una patologia di cui la ciclotimia è una forma leggera. Il suo libro Una mente inquieta (1995) è al contempo un saggio competente e un’autobiografia tormentata, soffrendo lei stessa il disturbo di cui è diventata un’autorità indiscussa - e che definisce "una malattia unica nel suo genere per i vantaggi e il piacere che dà, ma [che] nella sua scia porta una sofferenza quasi intollerabile e, non di rado, il suicidio."


Mi sono chiesta spesso se, avendo la possibilità di scegliere, vorrei avere la malattia maniaco-depressiva. […] Per quanto strano possa sembrare, credo che sceglierei di averla. È complicato. La depressione è più orribile di come parole, immagini o suoni possano descriverla, non vorrei mai doverne attraversare un’altra che duri a lungo. Qualsiasi rapporto viene dissanguato dal sospetto, dalla mancanza di fiducia e di rispetto di se stessi, dall’incapacità di godersi la vita, di camminare, parlare o pensare normalmente, dallo sfinimento, dalle notti e dai giorni di terrore. Non si può dire niente di buono sulla depressione, se non che ti fa provare come ci si sente quando si è vecchi, vecchi e malati, quando si è vicini alla morte, con la mente rallentata, senza grazia né smalto né coordinazione, quando si è brutti e non si crede più nelle possibilità che offre la vita, nei piaceri del sesso, nell’armonia della musica o nella capacità di far ridere se stessi e gli altri.

Gli altri credono di sapere che cosa significa essere depressi perché hanno affrontato un divorzio, perso il posto o rotto una relazione. Ma queste esperienze comportano dei sentimenti. La depressione, invece, è piatta, vuota e insopportabile. E dà fastidio. Quando sei depresso la gente non sopporta di starti vicino. Magari pensano che dovrebbero e ci provano, ma tu sai, e lo sanno anche loro, che sei seccante da non credersi: sei irritabile, paranoide, privo di spirito e di vita, sei critico ed esigente, e il conforto non ti basta mai. Hai paura e fai paura e «non sei proprio te stesso, ma presto passerà»; invece sai che non è vero.

Perché mai, quindi, dovrei voler avere qualcosa a che fare con questa malattia? Perché come conseguenza credo onestamente di aver percepito di più, in modo più profondo, di aver fatto più esperienze, in modo più intenso, di aver amato di più e di essere stata amata di più, di aver pianto più spesso, ma anche riso più spesso, di avere apprezzato di più la primavera dopo i lunghi inverni, di essere stata vicinissima alla morte e di averla apprezzata di più, come di avere apprezzato di più la vita e visto il lato migliore e quello più terribile della gente, di aver lentamente appreso il valore dell’affetto, della lealtà e dell’andare fino in fondo. Ho sondato l’ampiezza, la profondità e la larghezza della mia mente e del mio cuore e capito fino a che punto entrambi sono fragili e inconoscibili.

Da depressa, ho strisciato carponi per arrivare all’altro lato di una stanza, e l’ho fatto per mesi. Ma in condizioni normali o maniacali ho corso più velocemente, pensato più rapidamente e amato più intensamente della maggior parte delle persone che conosco. E credo che ciò sia dovuto in gran parte a questa malattia, all’intensità che conferisce alle esperienze e alla prospettiva che mi impone. Penso che la malattia mi abbia costretto a mettere alla prova i limiti della mia mente (che resiste, pur se è carente) e quelli della mia educazione, della mia famiglia, della mia cultura e dei miei amici.

Le innumerevoli ipomanie, e le manie stesse, hanno introdotto nella mia vita una diversa intensità di percezione di emozione e di pensiero. Anche nei peggiori momenti di psicosi, di mania, di delirio e di allucinazione mi rendevo conto di scoprire nuovi angoli della mia mente e del mio cuore. Alcuni tanto incredibili e belli da togliermi il respiro e farmi sentire che se fossi morta in quell’istante quelle visioni mi avrebbero accolto. Altri tanto grotteschi e brutti che non avrei mai voluto conoscerne l’esistenza né vederli di nuovo. Ma, sempre, c’erano angoli nuovi, e quando mi sento me stessa, cosa di cui sono debitrice ai farmaci e all’amore, non riesco a immaginare di essere stanca della vita proprio perché so che esistono quegli angoli infiniti dalla prospettiva sconfinata.

Kay Redfield Jamison, «Una mente inquieta», Longanesi, Milano 1996.

 

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