Domenica 15 aprile 2012 • Post di Eric G. Wilson
Eric G. Wilson è professore di inglese presso l’Università di Salem (North Carolina). Autore di svariati libri sulla indole melanconica, soffre di disturbo bipolare, una patologia di cui la ciclotimia è una forma leggera. Commentando il suo libro più famoso, Contro la felicità, Pier Francesco Borgia ha scritto: «Di felicità si può anche inaridire, mentre la melanconia, quella struggente inclinazione ad accettare la finitudine della bellezza, può soltanto innescare vivaci corticircuiti, tali da garantire un perenne stato di creatività e di capacità di ammirazione di tutto quanto ci circondi.»
La mia indole tende alla melanconia: uno stato che devo coltivare. Incoraggiando la mia natura intima, cerco di vivere secondo quella che vedo come la mia vocazione profonda. Certo, a volte è difficile seguire questa inclinazione, faticare nei campi della tristezza. Ma sento da qualche parte nel midollo delle ossa che sono nato per la melanconia. Se non mi attenessi a questa mia prerogativa, mi sentirei falso. La mia chiamata è alla terra confusa. [...]
Credo che a prescindere da quanto ci dichiariamo felici, abbiamo tutti provato questa fatica, questa tensione tra i nostri sentimenti oscuri e l’appello irritante del mondo lieto, luminoso e brillante. Siamo spossati dalla colpa che proviamo per i nostri animi melanconici. Vogliamo restare soli per poter rimuginare a piacimento. Lo vogliamo perché, quando proviamo questa preziosa confusione sulle cose dell’universo, ci sentiamo più vivi, più vitali. Sentiamo di essere con il mondo, con la sua impetuosa interazione di orribile e santo.
Si può fuggire dalla tristezza. Dalla tristezza si può trarre frutto. La sensazione di essere gettati in un mondo che non abbiamo fatto noi, di essere lacerati tra possibilità egualmente attraenti, l’angoscia cronica senza nessun motivo in particolare: se non scappiamo da queste situazioni in apparenza inevitabili, è probabile che ci venga il dubbio che questo senso di alienazione, questo limbo permanente, quest’inquietudine implacabile ci obblighino ad assumerci la responsabilità delle nostre individualità, a diventare per una volta autentici. Se ne conclude che la crisi è il crogiolo che brucia il superfluo e ci rivela la nostra essenza vitale.
Indugiare con i nostri vari straniamenti e le nostre sontuose paralisi e le nostre ansie nervose vuol dire giungere a una conclusione sorprendente: la melanconia ci mette in contatto con la nostra essenza fondamentale. Pensaci. Se sono triste e angosciato, non mi trovo a mio agio nel rapporto con gli oggetti e le persone che mi circondano. Mi agitano; le sento estranee. Mi guardo intorno in casa mia, per esempio. Vedo la lista della spesa, i volumi di Proust, il televisore, la foto di un amico. Ciascuna di queste cose è stranamente inaccessibile. Mi chiedo perché io me le sia procurate, che cosa ci facciano in casa mia. In altri momenti avrei potuto pensare che fossero parti integranti della mia vita. Adesso però, tutto di un colpo, mi paiono irrilevanti, come se volessero distogliermi da ciò che è più importante. Diventano insignificanti.
Disancorato da questi oggetti familiari, sono costretto a guardare in me stesso, nei miei più misteriosi recessi. Scrutandomi dentro mi rendo conto che sono in ultima analisi solo al mondo, che nessuno può vivere la mia vita per me: né mia moglie, né i miei genitori, né la mia cultura. In questo momento, spogliato da ciò che è familiare, raggiungo il massimo dell’intimità: io sono questa persona e non un’altra. Devo trovare le mie potenzialità uniche, i miei personali orizzonti. Sono io che devo vivere la mia vita e morire la mia morte. Nessun altro può farlo per me.
Mi allarmo. Lo so: sono un essere finito. Morirò. Le mie possibilità di vivere sono limitate. Ma proprio in questo frangente in cui mi sento circoscritto e confuso, mi è concessa un’opportunità d’oro, un invito supremo. Sono chiamato a immaginare le mie opportunità più peculiari, le mie potenzialità più proprie. Non ho che un breve attimo su questa terra. Farei bene a sfruttare al meglio questo mio tempo. Accettare la mia morte è un trauma che mi induce a vivere. Percepire la mia finitezza mi porta a immaginare infiniti orizzonti possibili.
È un paradosso, ma tenere un occhio rivolto alla morte mi fa entrare nella vita; sentirmi totalmente solo mi fa percepire la comunione con tutti gli esseri viventi. Soffrire un’angoscia inevitabile mi impone un trauma vitale. Ho capito che essere vivo vuol dire rendersi conto della magnifica polarità dell’universo. La vita cresce dalla morte e la morte dalla vita; la turbolenza genera strutture armoniose e l’ordine si dissolve in caos vibrante. Il cosmo è vario, confuso, intricato e contraddittorio. Di colpo non mi sento più come se stessi facendo un eterno zapping, schiacciando il pulsante ogni sera anche se ho già visto tutto quello che lampeggia sullo schermo. Al contrario, non so che cosa verrà dopo. Sono sul chi vive. Sono teso, incompleto e triste, ma sto cercando di immaginare poesie più belle del movimento silenzioso e subdolo degli squali e sinfonie più altisonanti del canto degli uccelli solitari nell’estate. Cerco di concepire un cosmo dal caos.
So che potrebbero sembrare pensieri malsani, ma non è questa l’intenzione. Sono idee che invece vorrebbero essere vitali, eccitanti, liberatorie. La morte quest’ottica non è solo declino o putrefazione o tomba. È un appello alla vita, una scossa elettrica che ci impone di esplorare, con vigore e intelligenza, le nostre probabilità e i nostri rischi.
Eric G. Wilson, «Contro la felicità», Guanda, Parma 2009.
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Domenica 1 aprile 2012 • Post di Kay Redfield Jamison
Kay Jamison è uno dei massimi esperti al mondo di disturbo bipolare, una patologia di cui la ciclotimia è una forma leggera. Il suo libro Una mente inquieta (1995) è al contempo un saggio competente e un’autobiografia tormentata, soffrendo lei stessa il disturbo di cui è diventata un’autorità indiscussa - e che definisce "una malattia unica nel suo genere per i vantaggi e il piacere che dà, ma [che] nella sua scia porta una sofferenza quasi intollerabile e, non di rado, il suicidio."
Mi sono chiesta spesso se, avendo la possibilità di scegliere, vorrei avere la malattia maniaco-depressiva. […] Per quanto strano possa sembrare, credo che sceglierei di averla. È complicato. La depressione è più orribile di come parole, immagini o suoni possano descriverla, non vorrei mai doverne attraversare un’altra che duri a lungo. Qualsiasi rapporto viene dissanguato dal sospetto, dalla mancanza di fiducia e di rispetto di se stessi, dall’incapacità di godersi la vita, di camminare, parlare o pensare normalmente, dallo sfinimento, dalle notti e dai giorni di terrore. Non si può dire niente di buono sulla depressione, se non che ti fa provare come ci si sente quando si è vecchi, vecchi e malati, quando si è vicini alla morte, con la mente rallentata, senza grazia né smalto né coordinazione, quando si è brutti e non si crede più nelle possibilità che offre la vita, nei piaceri del sesso, nell’armonia della musica o nella capacità di far ridere se stessi e gli altri.
Gli altri credono di sapere che cosa significa essere depressi perché hanno affrontato un divorzio, perso il posto o rotto una relazione. Ma queste esperienze comportano dei sentimenti. La depressione, invece, è piatta, vuota e insopportabile. E dà fastidio. Quando sei depresso la gente non sopporta di starti vicino. Magari pensano che dovrebbero e ci provano, ma tu sai, e lo sanno anche loro, che sei seccante da non credersi: sei irritabile, paranoide, privo di spirito e di vita, sei critico ed esigente, e il conforto non ti basta mai. Hai paura e fai paura e «non sei proprio te stesso, ma presto passerà»; invece sai che non è vero.
Perché mai, quindi, dovrei voler avere qualcosa a che fare con questa malattia? Perché come conseguenza credo onestamente di aver percepito di più, in modo più profondo, di aver fatto più esperienze, in modo più intenso, di aver amato di più e di essere stata amata di più, di aver pianto più spesso, ma anche riso più spesso, di avere apprezzato di più la primavera dopo i lunghi inverni, di essere stata vicinissima alla morte e di averla apprezzata di più, come di avere apprezzato di più la vita e visto il lato migliore e quello più terribile della gente, di aver lentamente appreso il valore dell’affetto, della lealtà e dell’andare fino in fondo. Ho sondato l’ampiezza, la profondità e la larghezza della mia mente e del mio cuore e capito fino a che punto entrambi sono fragili e inconoscibili.
Da depressa, ho strisciato carponi per arrivare all’altro lato di una stanza, e l’ho fatto per mesi. Ma in condizioni normali o maniacali ho corso più velocemente, pensato più rapidamente e amato più intensamente della maggior parte delle persone che conosco. E credo che ciò sia dovuto in gran parte a questa malattia, all’intensità che conferisce alle esperienze e alla prospettiva che mi impone. Penso che la malattia mi abbia costretto a mettere alla prova i limiti della mia mente (che resiste, pur se è carente) e quelli della mia educazione, della mia famiglia, della mia cultura e dei miei amici.
Le innumerevoli ipomanie, e le manie stesse, hanno introdotto nella mia vita una diversa intensità di percezione di emozione e di pensiero. Anche nei peggiori momenti di psicosi, di mania, di delirio e di allucinazione mi rendevo conto di scoprire nuovi angoli della mia mente e del mio cuore. Alcuni tanto incredibili e belli da togliermi il respiro e farmi sentire che se fossi morta in quell’istante quelle visioni mi avrebbero accolto. Altri tanto grotteschi e brutti che non avrei mai voluto conoscerne l’esistenza né vederli di nuovo. Ma, sempre, c’erano angoli nuovi, e quando mi sento me stessa, cosa di cui sono debitrice ai farmaci e all’amore, non riesco a immaginare di essere stanca della vita proprio perché so che esistono quegli angoli infiniti dalla prospettiva sconfinata.
Kay Redfield Jamison, «Una mente inquieta», Longanesi, Milano 1996.
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