Domenica 1 aprile 2012 • Post di Kay Redfield Jamison
Kay Jamison è uno dei massimi esperti al mondo di disturbo bipolare, una patologia di cui la ciclotimia è una forma leggera. Il suo libro Una mente inquieta (1995) è al contempo un saggio competente e un’autobiografia tormentata, soffrendo lei stessa il disturbo di cui è diventata un’autorità indiscussa - e che definisce "una malattia unica nel suo genere per i vantaggi e il piacere che dà, ma [che] nella sua scia porta una sofferenza quasi intollerabile e, non di rado, il suicidio."
Mi sono chiesta spesso se, avendo la possibilità di scegliere, vorrei avere la malattia maniaco-depressiva. […] Per quanto strano possa sembrare, credo che sceglierei di averla. È complicato. La depressione è più orribile di come parole, immagini o suoni possano descriverla, non vorrei mai doverne attraversare un’altra che duri a lungo. Qualsiasi rapporto viene dissanguato dal sospetto, dalla mancanza di fiducia e di rispetto di se stessi, dall’incapacità di godersi la vita, di camminare, parlare o pensare normalmente, dallo sfinimento, dalle notti e dai giorni di terrore. Non si può dire niente di buono sulla depressione, se non che ti fa provare come ci si sente quando si è vecchi, vecchi e malati, quando si è vicini alla morte, con la mente rallentata, senza grazia né smalto né coordinazione, quando si è brutti e non si crede più nelle possibilità che offre la vita, nei piaceri del sesso, nell’armonia della musica o nella capacità di far ridere se stessi e gli altri.
Gli altri credono di sapere che cosa significa essere depressi perché hanno affrontato un divorzio, perso il posto o rotto una relazione. Ma queste esperienze comportano dei sentimenti. La depressione, invece, è piatta, vuota e insopportabile. E dà fastidio. Quando sei depresso la gente non sopporta di starti vicino. Magari pensano che dovrebbero e ci provano, ma tu sai, e lo sanno anche loro, che sei seccante da non credersi: sei irritabile, paranoide, privo di spirito e di vita, sei critico ed esigente, e il conforto non ti basta mai. Hai paura e fai paura e «non sei proprio te stesso, ma presto passerà»; invece sai che non è vero.
Perché mai, quindi, dovrei voler avere qualcosa a che fare con questa malattia? Perché come conseguenza credo onestamente di aver percepito di più, in modo più profondo, di aver fatto più esperienze, in modo più intenso, di aver amato di più e di essere stata amata di più, di aver pianto più spesso, ma anche riso più spesso, di avere apprezzato di più la primavera dopo i lunghi inverni, di essere stata vicinissima alla morte e di averla apprezzata di più, come di avere apprezzato di più la vita e visto il lato migliore e quello più terribile della gente, di aver lentamente appreso il valore dell’affetto, della lealtà e dell’andare fino in fondo. Ho sondato l’ampiezza, la profondità e la larghezza della mia mente e del mio cuore e capito fino a che punto entrambi sono fragili e inconoscibili.
Da depressa, ho strisciato carponi per arrivare all’altro lato di una stanza, e l’ho fatto per mesi. Ma in condizioni normali o maniacali ho corso più velocemente, pensato più rapidamente e amato più intensamente della maggior parte delle persone che conosco. E credo che ciò sia dovuto in gran parte a questa malattia, all’intensità che conferisce alle esperienze e alla prospettiva che mi impone. Penso che la malattia mi abbia costretto a mettere alla prova i limiti della mia mente (che resiste, pur se è carente) e quelli della mia educazione, della mia famiglia, della mia cultura e dei miei amici.
Le innumerevoli ipomanie, e le manie stesse, hanno introdotto nella mia vita una diversa intensità di percezione di emozione e di pensiero. Anche nei peggiori momenti di psicosi, di mania, di delirio e di allucinazione mi rendevo conto di scoprire nuovi angoli della mia mente e del mio cuore. Alcuni tanto incredibili e belli da togliermi il respiro e farmi sentire che se fossi morta in quell’istante quelle visioni mi avrebbero accolto. Altri tanto grotteschi e brutti che non avrei mai voluto conoscerne l’esistenza né vederli di nuovo. Ma, sempre, c’erano angoli nuovi, e quando mi sento me stessa, cosa di cui sono debitrice ai farmaci e all’amore, non riesco a immaginare di essere stanca della vita proprio perché so che esistono quegli angoli infiniti dalla prospettiva sconfinata.
Kay Redfield Jamison, «Una mente inquieta», Longanesi, Milano 1996.
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