La donna di picche e il diritto di avere la faccia triste
Sabato 25 maggio 2013 • Post di Mariano Tomatis
Ci sono dettagli che ti passano sotto gli occhi un'infinità di volte — troppe perché tu possa accorgertene. Poi arriva qualcuno che te li fa notare, e la prima cosa che ti viene in mente è di metterli nero su bianco. In questo caso, a beneficio di chi — come i lettori di questo blog — rivendicano il diritto di avere la faccia triste.
Ieri Silvia ha assistito a uno spettacolo di magia, e dopo aver raccolto una carta da gioco, le ha dedicato qualche riga su Facebook:
Ho sempre provato molta più simpatia per la donna di picche che per quella di cuori. Non deve essere bella per forza, soddisfare aspettative, subire la continua scelta quando chiedono: «Pensa a una carta.» La donna di picche è quella che è. Con le occhiaie e il diritto di avere la faccia triste.(1)
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(1) Silvia Bianco, post Facebook del 25 maggio 2013.
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Giovedì 16 maggio 2013 • Post di Mariano Tomatis
Se la ciclotimia si manifesta in maniera più o meno bilanciata tra donne e uomini, le narrative che evoca in ciascun genere sono diverse ma accomunate da un grave senso di inadeguatezza.
Nel suo libro Il silenzio degli uomini Iaia Caputo denuncia la retorica che offre diritto di cittadinanza alla sola perfezione — una condizione anni luce dalla grigia mediocrità e profonda incompletezza in cui la ciclotimia periodicamente scaglia le sue vittime. Opponendosi alla ricerca febbrile di uno status senza macchia né paura, la scrittrice propone l'erezione di monumenti che celebrino il limite e la paura:
La retorica di uno sfolgorante coraggio maschile ha fatto tra gli uomini tante vittime quante ne ha causate tra le donne quella della maternità esente da ombre e priva di ambivalenze. E magari sarebbe ora di erigere, in una furia iconoclasta e liberatoria, un monumento alla Paura: quella patita da infinite generazioni di uomini senza che fosse loro consentito di riconoscerla, dunque di nominarla. [...] Se la violenza è paura raggelata, scagliata fuori di sé contro chi si teme quanto più si immagina di non conoscerlo, nemico, straniero, donna che sia, riconoscere la paura come legittima e possibile quanta violenza potrebbe evitare?(1)
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(1) Iaia Caputo, Il silenzio degli uomini, Feltrinelli, Milano 2012.
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Thomas Pynchon: il Banksy della letteratura
Mercoledì 8 maggio 2013 • Post di Mariano Tomatis
Chi è ciclotimico tollera con difficoltà una cultura di massa che celebra soltanto la vittoria, la ricchezza e il successo. Oggi è il 76° compleanno di Thomas Pynchon, lo scrittore statunitense pluricandidato al premio Nobel, considerato tra i più grandi autori postmoderni. La sua "poetica del preterito" mette al centro gli ultimi, i perdenti e i sommersi, sfidando la cultura dominante perfino con la sua "assenza" fisica: come il writer Banksy, Pynchon ha deciso di non apparire in pubblico, facendo la scelta di parlare solo attraverso le sue opere.
Due caratteristiche ne segnano la cifra stilistica: una smodata curiosità per tutto ciò che è dimenticato — siano persone, fatti, luoghi o tecnologie — e un gusto per la sovrabbondanza di dettagli, le storie eccessive e inverosimili e le centinaia di riferimenti a fatti storici, veri e inventati.
Il suo stile di scrittura è talmente labirintico e rutilante da aver indispettito molti critici, ma al contempo l’ha trasformato in un autore di culto.
Avendo studiato fisica a Cornell, nei suoi romanzi propone vertiginose contaminazioni tra umanesimo e scienza. Giuseppe Salzano ne rileva così il deviato gusto enciclopedico:
[Pynchon] mette in luce, attraverso una fitta rete di richiami, le connessioni occulte della realtà e si nutre di ogni aspetto della cultura popolare: il jazz, il romanzo giallo, il pulp, la fantascienza, il fumetto, la musica, le guide turistiche, i B-movie, senza contare gli innumerevoli contenuti a carattere scientifico-divulgativo: fisica, statistica, cibernetica, elettronica, teoria dell’informazione, biologia, chimica, neuro–fisiologia, balistica ed elettronica. In ultima istanza, la Tecnica e la Tecnologia assurgono ad autentiche protagoniste della scena.(1)
Come un illusionista della parola, Pynchon racconta storie vere che sembrano false e viceversa; al lettore attento, però, offre sempre tutti gli elementi per documentarsi e distinguere verità e menzogna; in questo modo, persegue in maniera lucida l’obiettivo della "meraviglia senza inganno" teorizzata da Michael Saler nel suo As If.
Nel suo noir Vizio di forma il rapporto complesso tra vero e falso è condensato in uno scambio fulminante:
Gli investigatori privati dovrebbero stare alla larga dalla droga, tutti quegli universi alternativi non fanno che complicare un bel po’ il lavoro.
«E allora che mi dici di Sherlock Holmes? Ehi, quello si faceva di coca in continuazione, gli serviva per risolvere i casi.»
«Vero, ma… non è mai esistito!»
«Cosa? Sherlock Holmes era…»
«È un personaggio inventato di una serie di racconti, Doc.»
«Macch… No-o. No, esiste eccome. C’è anche l’indirizzo dove abita, a Londra. Cioè, forse adesso non più, anni fa… ormai deve essere morto.»(2)
Un capitolo del romanzo V. è dedicato a uno strano popolo africano sterminato nel 1904 dai tedeschi. Le vicende sono trattate come se si trattasse di finzione romanzesca, ma se si seguono gli indizi disseminati qua e là, ci si accorge che Pynchon ha riportato alla luce la vera (e tragica) vicenda degli Herero, ricostruita con meticolosa cura e grande intensità emotiva. Lo scrittore statunitense esplora le pieghe della storia per raccontare vicende dimenticate, incarnando quella che i critici chiamano la "poetica del preterito".
Giuseppe Salzano l’ha definito:
un marginato che si aggira per le discariche della letteratura collezionando articoli di riviste scientifiche, bollettini militari, ricette mediche, sceneggiature rifiutate da Hollywood, copioni teatrali dimenticati, rimasugli di antiche leggende e vecchi stralci di giornale, restituendocele nella grandiosità delle sue pagine.(3)
Un gusto che Joshua Held cattura in questa divertente elaborazione grafica:
Un grazie a Joshua Held per l'autorizzazione a pubblicare questa sua creazione.
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(1) Giuseppe Salzano, "L’arcobaleno della gravità (T.Pynchon)" in Letteratu (blog), 8.9.2011.
(2) Thomas Pynchon, Vizio di forma, Giulio Einaudi Editore, Torino 2011 (traduzione di Massimo Bocchiola).
(3) Giuseppe Salzano, op. cit.
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È l’accumulo di fede a creare la propria veridicità
Lunedì 6 maggio 2013 • Post di Mariano Tomatis
Orson Welles (1915-1985) avrebbe compiuto oggi 98 anni. In un’intervista di Kenneth Tynan, pubblicata nel 1967 su Playboy, Welles parla delle contraddizioni e di come — a volte — sia necessario conviverci senza trovare a tutti i costi una conciliazione.
Credi in Dio?
Posso non essere un credente, ma sono certamente religioso. In qualche strano modo, io accetto addirittura la divinità di Cristo. È l’accumulo di fede a creare la propria veridicità. Lo fa in senso junghiano, perché la fede può rendere vero qualcosa in un modo che è quasi reale come la vita stessa.
Se mi chiedete se il giudeo che fu crocifisso era Dio, la risposta è no. Ma l’idea giudaico-cristiana che trovo irresistibile è che l’uomo — non importa quali antenati abbia avuto o quanto il suo patrimonio genetico sia distante da quello di qualsiasi scimmia assassina — è davvero unico. Se siamo capaci di amore reciproco gratuito, questo ci rende assolutamente soli, come specie, su questo pianeta. Non c’è un altro animale che, in questo, ci assomiglia lontanamente. La nozione della divinità di Cristo è solo un altro modo per dirlo. Ecco perché il mito è vero. Nel più alto senso tragico, non fa che proporre in forma drammatica l’idea che l’uomo è divino.
Ma come si concilia questo con—
Per 30 anni le persone mi hanno chiesto come X si concilia con Y! La risposta sincera è che non si conciliano affatto. Tutto in me è contraddittorio, e lo stesso vale per tutte le persone che conosco. Siamo fatti di opposizioni, viviamo tra due poli opposti. C’è un filisteo e un esteta in tutti noi, e un assassino e un santo. Non si conciliano gli opposti. Al massimo puoi rilevarli.
Kenneth Tynan, “Playboy Interview: Orson Welles” in Playboy (marzo 1967).
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