Mercoledì 27 febbraio 2013 • Post di Mariano Tomatis
I depressi hanno una visione più realistica dell’esistenza rispetto a chi è sano. Sono le conclusioni di uno studio(1) di Makiko Yamada, scienziato giapponese che ha studiato un fenomeno chiamato "illusione di superiorità".
La maggior parte degl individui si attribuisce capacità e intelligenza superiori alla media. La distanza tra ciò che si percepisce e la realtà è stata misurata con svariati esperimenti di psicologia sociale. Yamada ha scoperto che chi è moderatamente depresso è più realista ed è meno esposto all’illusione di superiorità.
All’aumentare della depressione (valori di BHS più alti - a destra) l’illusione di superiorità diminuisce.
La bassa autostima tende dunque a "correggere" un certo eccesso di stima che emerge spontaneo nel cervello di chi è sano. Un pensiero interessante, per chi - ciclotimico - è costretto ad attraversare periodiche fasi depressive!
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Si può twittare dopo la morte?
Domenica 24 febbraio 2013 • Post di Mariano Tomatis
Nell’ultima scena di Amore e Guerra(1), Sonja/Diane Keaton chiede all’ormai defunto Boris/Woody Allen che effetto faccia la morte.
Hai presente il pollo al ristorante Tresky? Beh, è peggio!
In mancanza di qualcuno che torni a raccontarci com’è (e se c’è) la vita di là, siamo costretti a fare ipotesi.(2) Un aiuto laico e creativamente straordinario ce lo offre David Eagleman nel suo Sum ("Nella vita di là") — l'ennesima lettura di qualità segnalata dal mio pusher preferito, Ferdinando Buscema.
Al neuroscienziato statunitense non interessa influenzare la coscienza religiosa del lettore: egli afferma di non credere alla realtà di nessuna delle quaranta proposte che offre tra le sue pagine. I suoi esperimenti mentali sull’aldilà, ognuno più provocatorio e inaspettato del precedente, portano piuttosto a riflettere sulla condizione umana nell’al-di-qua, offrendo punti di vista sorprendenti e controintuitivi.
Il libro ha incontrato il favore di atei e credenti in egual misura, ricevendo un endorsement entusiasta da parte di due noti umanisti — Stephen Fry e Brian Eno — ma anche essendo incluso nella lista dei migliori libri di spiritualità del 2009.
Eagleman si definisce un Possibilista: a differenza di un agnostico, egli ritiene che la mancanza di dati sul trascendente non costringa alla sospensione del giudizio, bensì incoraggi l’attiva elaborazione di ipotesi logicamente coerenti e l’esplorazione creativa di molteplici scenari al contempo. Come ha scritto Kevin Kelly,
L’agnosticismo si ferma per la mancanza di una risposta. Il possibilismo prende l’avvio dalla mancanza di una risposta.(3)
Sum è oggi considerato la bibbia del Possibilismo.
È di pochi giorni fa l’annuncio di LivesOn, una app che consente di twittare anche dopo la morte. Il sistema rielabora ciò che si è condiviso sui social network mentre si era vivi, cercando di cogliere lo stile di un utente e producendo nuovi contenuti — anche scrivendo email private ad amici e conoscenti.
Eagleman aveva anticipato l’idea in uno dei suoi racconti — "Death Switch":
Costruire un death switch per fingere di non essere morti è diventata una vera e propria arte: […] i più sofisticati riescono a ricordare avventure condivise, si rammentano reciprocamente certe simpatiche scappatelle di gioventù, si scambiano battute che solo loro capiscono, si vantano di imprese passate, citano esperienze di una vita intera. In questo modo i death switch si sono trasformati in una risata cosmica sulla mortalità.(4)
All’idea, Charlie Brooker ha dedicato una puntata di Black Mirror, una delle più intelligenti miniserie mai realizzate (qui il crudele trailer della stagione 2).
"Be Right Back (2×01)" esplora il tema dell’elaborazione del lutto in una società in cui esistono sofisticati death switch, interrogandosi sull’ipotesi che i social network possano guadagnarci l’immortalità.
Se Brooker si concentra sulle conseguenze di tale tecnologia su chi è vivo (in una puntata che — come le altre della serie — mette i brividi), Eagleman sposta l’attenzione sull’aldilà:
La maggior parte della gente è morta e noi siamo tra i pochi rimasti. Quando saremo morti anche noi e si saranno avviati i nostri death switch, non ci sarà altro che un sofisticato network di transazioni, senza che nessuno le legga: una società di email che rimbalzano avanti e indietro sotto silenziosi satelliti in orbita attorno a un pianeta muto.(5)
A sopravvivere sarà, dunque, la fitta rete dei nostri rapporti. E chiedersi se esista l’aldilà o meno sarà domanda mal posta:
Per noi [infatti] non esiste vita di là in quanto tale; esiste invece un aldilà per ciò che esiste tra noi.(6)
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(1) Il titolo originale è Amore e Morte.
(2) Simone Cristicchi lo ha fatto coraggiosamente al Festival di Sanremo 2013 con la canzone "La prima volta (che sono morto)".
(3) Kevin Kelly, "Possibilians vs Agnostics" in Technium Blog, 18.2.2011.
(4) David Eagleman, Nella vita di là, Mondadori, Milano 2012, pp. 82-83.
(5) Eagleman, op. cit., p. 83.
(6) Eagleman, op. cit., pp. 83-84.
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Sono già disturbato, entra pure
Martedì 22 gennaio 2013 • Post di Mariano Tomatis
Un’originale alternativa al classico “Non disturbare”, per chi soffre di disturbi dell’umore.
Sono già disturbato, entra pure
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Non temete i momenti difficili
Domenica 30 dicembre 2012 • Post di Rita Levi Montalcini
In fin dei conti, non temete i momenti difficili. Il meglio scaturisce da lì.
Rita Levi Montalcini (1909-2012)
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Martedì 25 dicembre 2012 • Post di Orhan Pamuk
Da sempre la scrittura alleggerisce i “momenti bassi” della mia ciclotimia. Un capitolo tratto da Altri colori del premio Nobel Orhan Pamuk conforta la mia ipotesi che la letteratura possa essere un valido aiuto per affrontare i momenti di depressione. La prosa dello scrittore turco rivela in modo crudo i tormenti da lui vissuti e le vie d’uscita individuate nell’impegno intellettuale e nell’atto creativo.
La letteratura mi è necessaria come un farmaco. Come capita a chi ha una dipendenza, la letteratura, che devo «assumere» ogni giorno come una medicina che si prende col cucchiaio o con un’iniezione, ha una dose consigliata e degli effetti collaterali.
Prima di tutto la «medicina» deve essere buona. E con buona intendo dire vera ed efficace. Un brano di romanzo forte, intenso e profondo, in cui credo, che mi rende felice più di tante altre cose e mi lega alla vita. […] Se invece a scrivere sono io, la «dose» di «letteratura» che devo prendere ogni giorno è completamente diversa. Perché nel mio stato la cura migliore, la massima fonte di felicità, è scrivere ogni giorno una buona mezza pagina. […] Ma non vorrei essere frainteso: chi come me è dipendente dalla letteratura non è così superficiale da essere felice con i bei libri che scrive, con il loro numero e successo. Chi ne è dipendente non desidera la letteratura per salvarsi la vita, ma soltanto per superare la difficile giornata che sta trascorrendo. I giorni sono sempre difficili. La vita è difficile perché non scrivi. Perché non riesci a scrivere. Ed è difficile anche quando scrivi, perché scrivere è molto difficile. Fra tutte queste difficoltà, l’importante è riuscire a trovare la speranza per far passare la giornata, anzi essere felice e gioire se il libro o la pagina che ti portano in un nuovo mondo sono buoni.
Vi racconto che cosa sento se un giorno non ho scritto bene o non mi sono perso nel conforto di un libro. In breve, per me il mondo si trasforma in un luogo insopportabile e tremendo, e chi mi conosce sa immediatamente che anch’io sono diventato come quel mondo. Per esempio, quando si fa sera mia figlia coglie dall’espressione desolata del mio volto che durante la giornata non ho potuto scrivere bene. Glielo vorrei nascondere ma non mi riesce mai. In questi brutti momenti penso che vivere o non vivere sia la stessa cosa. Non ho voglia di parlare con nessuno, e chi mi vede in quello stato non ha voglia di parlare con me. Questo umore in realtà comincia ad avvolgere lentamente il mio animo ogni giorno fra l’una e le tre di pomeriggio, ma dato che ho imparato a usare la scrittura e i libri come una medicina, mi salvo senza diventare completamente il cadavere di me stesso. Se capita che per lunghi periodi non posso prendere la mia medicina che sa di inchiostro e carta perché sono in viaggio o, come è accaduto in passato, a causa del servizio militare o perché devo andare a pagare la bolletta del gas o, come è successo di recente, per questioni politiche o chissà per quanti altri impedimenti, sento che l’infelicità mi trasforma in una specie di uomo di cemento. Non riesco a muovere nessuna parte del corpo, le mie articolazioni non funzionano, la testa si fa di pietra e sembra che il mio sudore abbia un odore diverso. Questa infelicità può durare a lungo: la vita infatti è piena di castighi che ci allontanano dalle consolazioni della letteratura. Partecipare a un’affollata riunione politica, chiacchierare con gli amici nel corridoio della facoltà, trovarsi a pranzo con i parenti in un giorno di festa, la conversazione forzata con una brava persona distratta e rintronata dalla televisione, un appuntamento di «lavoro» organizzato tempo prima, un incontro di famiglia durante le festività, una banale uscita per fare la spesa, andare dal notaio, fare una fototessera per ottenere un visto, sono tutte attività durante le quali gli occhi mi si appesantiscono e mi viene sonno, proprio nel cuore della giornata. Quando sono lontano da casa e mi è impossibile tornare nella mia stanza e rimanere solo, l’unica mia consolazione è addormentarmi in pieno giorno.
Si, forse ciò di cui ho bisogno non è la letteratura ma rimanere solo in una stanza e fantasticare. Allora comincio a sognare cose bellissime su tutti quei luoghi affollati, sulle riunioni famigliari e scolastiche, sui pranzi con i parenti nei giorni di festa e sulle persone che vi partecipano. Durante quegli affollati pranzi fantastico sulle persone che siedono intorno a me e le rendo più divertenti. Nella mia immaginazione tutto diventa interessante, attraente e vero. Parto da questo mondo noto e comincio a immaginarne uno nuovo. Così siamo arrivati al nocciolo della questione. Per scrivere in modo soddisfacente devo annoiarmi per bene, e per annoiarmi per bene devo immergermi nella vita. Quando sono proprio in mezzo a tutto quel frastuono, agli uffici, alle telefonate, all’amore, all’amicizia, su una spiaggia assolata o a un funerale in una giornata piovosa, quando cioè sto per entrare nel cuore degli eventi, sento improvvisamente di trovarmi alloro margine. Comincio a fantasticare. Se siete pessimisti potete pensare di annoiarvi. In entrambi i casi, una voce interiore vi suggerisce: «Torna nella tua stanza e siediti alla scrivania!» Non conosco i metodi degli altri, ma quelli come me diventano scrittori in questo modo.(1)
Orhan Pamuk, «Altri colori» (2008).
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(1) Orhan Pamuk, “L’autore implicito” in Altri colori, Einaudi, Torino 2008, pp. 10-12.
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Giovedì 20 dicembre 2012 • Post di Brené Brown
La scrittrice Brené Brown ha da poco pubblicato Saper osare. Il libro esalta la capacità di riconoscere nella vulnerabilità una virtù, piuttosto che una debolezza. Il messaggio può essere particolarmente apprezzato da chi, ciclotimico, è costretto ad affrontare abissi di fragilità senza scorgerne le potenzialità. Al tema, Brené ha dedicato anche una TED Talk. Qui di seguito, alcuni brani del libro selezionati da Maria Popova.
Ciò che conosciamo conta, ma ciò che siamo conta ancora di più. Essere piuttosto che conoscere richiede di mostrarci e lasciare che gli altri ci osservino. E questo ci impone di osare, di essere vulnerabili. […]
La vulnerabilità non è né buona né cattiva. Non è un’emozione oscura, né sempre un’esperienza leggera e positiva. La vulnerabilità è il nucleo di tutte le emozioni e i sentimenti. Per "sentire" è necessario essere vulnerabili. Pensare che la vulnerabilità sia una debolezza è come pensare che i sentimenti siano una debolezza. Precluderci una vita emotiva per paura che i suoi costi siano troppo alti è come sfugggire dall’unica cosa che dà un senso e una direzione alla nostra vita. […]
Se andiamo alla ricerca di una direzione più chiara e di una vita più significativa, la vulnerabilità è la strada da percorrere.
La vulnerabilità è il luogo in cui nascono l’amore, il senso di appartenenza, la gioia, il coraggio, l’empatia, la responsabilità e l’autenticità.
Brené Brow, «Daring Greatly» (2012).
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Venerdì 7 dicembre 2012 • Post di Mariano Tomatis
Ringrazio per la segnalazione L.B.
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Domenica 2 dicembre 2012 • Post di Henry Miller
L’arte di vivere si basa sul ritmo - dare e ricevere, alti e bassi, luci e ombre, vita e morte. Accettando tutti gli aspetti della vita, il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, il tuo e il mio, la vita monotona e sulla difensiva a cui molti sono condannati diventa come una danza, la "danza della vita".
[…]
Per quanto ne sappiamo, la vita è conflitto e l’individuo - in quanto parte della vita - è espressione del conflitto stesso. Chi sa riconoscerlo e accettarlo, è in grado di conoscere la pace e goderne, nonostante il conflitto. Ma per arrivare a un traguardo del genere, che è in realtà solo un inizio (dal momento che abbiamo appena iniziato a vivere), l’uomo deve imparare la dottrina dell’accettazione e della resa incondizionata che è l’amore.
Henry Miller (1891-1980), «The Wisdom of the Heart» (1960)
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Giovedì 29 novembre 2012 • Post di Pascale Senk
L’amico Régis Blain mi segnala un articolo di Pascale Senk pubblicato su Le Figaro(1), che ho qui tradotto per i lettori italiani. Nonostante il lodevole tentativo di parlare di ciclotimia su un diffuso quotidiano, l’approccio di Senk si ferma abbastanza in superficie.
Ogni decennio ha il suo disturbo mentale? Alla fine degli anni Novanta erano le dipendenze ad avere il vento in poppa. Andava di moda chiedersi se si era dipendenti da qualcosa: al gioco, allo shopping compulsivo, al sesso… Oggi è il momento dei disturbi bipolari. Per convincersene, basta contare il numero di pubblicazioni scientifiche e divulgative a loro dedicate. O il numero di siti web che offrono spazi di confronto ai malati di tali disturbi.
La consacrazione suprema si deve a una serie televisiva: Carrie Mathison, agente della CIA e protagonista di Homeland, alterna fasi di ipomania - durante le quali è convinta di poter catturare un ricercato - a periodi depressivi, dove si sente impotente e incompresa dai colleghi più vicini. All’inizio di ciascun episodio lo spettatore trattiene il fiato e si domanda: in che stato si troverà Carrie?
Oscillazioni emotive di questo tipo, che fanno sembrare la vita un percorso da rodeo, sono i tratti caratteristici del disturbo bipolare, da molto tempo chiamato "maniaco depressivo". Ma non solo. «L’uomo è "ciclico" per sua stessa natura,» afferma il dottor Nicolas Ian Duchesne, psichiatra specializzato in disturbi bipolari a Montpellier. «C’è da dire che il nostro umore è forzatamente variabile, in quanto influenzato dall’ambiente, dalle stagioni, dalle condizioni fisiche, ecc. Le donne lo sanno meglio di chiunque altro: le loro fluttuazioni ormonali accentuano ancora di più l’instabilità emotiva che segna la loro vita.»
Certo. Però, alla fine del XIX secolo, gli psichiatri tedeschi Hecker e Wilmanns, specializzati in psicosi maniaco depressiva, hanno chiamato "ciclotimia" tale alternanza, e da allora il termine è stato usato per definire la frontiera della patologia. «Il problema è che la ciclotimia è presentata come una "versione soft" del disturbo bipolare,» lamenta il dottor Duchesne, «mentre più che un disturbo, si tratta di un temperamento.»
«Dei tratti poetici e un’ipersensibilità,» aggiunge Régis Blain, ciclotimico da lunga data, ex paziente del dottor Elie Hantouche con cui ha contribuito al libro J’apprends à gérer ma cyclothymie (Edizioni Josette Lyon) e che si batte sul suo blog perché alti e bassi non siano considerati sistematicamente in modo patologico. «A forza di vedere il disturbo dappertutto, si rischia di considerare lo spleen baudeleriano come la prova di una depressione. Avreste prescritto del litio a Marcel Proust?» Régis Blain si batte per la riconoscenza di una biodiversità psichica che, come in ogni ambito naturale, consenta il diritto di cittadinanza a qualunque tipo di carattere, senza sottomettersi a una norma. Quale che sia una norma del genere. «La stessa tolleranza che abbiamo verso gli artisti e i creativi lunatici, stravaganti e capricciosi dovrebbe essere estesa a chiunque si trovi in quella zona grigia che chiamiamo "ciclotimia"», si lamenta Blain.
La normalità è nell’alternanza degli stati d’animo
Consultando alcuni siti dedicati ai modi per riconoscere il disturbo bipolare nei bambini, si scopre una specie di caccia all’ipersensibilità, oggi mal vista nella nostra società che inneggia al controllo. Lo psicanalista Saverio Tomasella, che pubblica in questi giorni Hypersensibles: trop sensibles pour être heureux? (Edizioni Eyrolles), lo esprime così: «Io non uso il termine tecnico di "ciclotimia", perché la salute psichica risiede proprio nell’alternarsi di stati di umore diversi. Troviamo il nostro equilibrio più profondo proprio nel succedersi senza sosta di tali squilibri. A inquietare davvero sono le persone insensibili, i più rigidi dal punto di vista psichico, o i tiranni autoritari.»
Su alcuni punti gli specialisti sono concordi. Il primo è che la sofferenza che emerge constatando la propria differenza rispetto agli altri è un motivo sufficiente di cura. Come scrive Tomasella, «Nella nostra società occidentale, l’ipersensibilità è piuttosto mal vista. Per fare in modo che l’individuo accetti tale caratteristica come un semplice tratto profondo di personalità, può essere necessario un aiuto.»
Esiste consenso intorno a un altro aspetto: se esistono dei cicli nel disturbo bipolare come nella ciclotimia, il primo genera episodi lunghi (in particolare quelli depressivi), mentre la seconda produce un’alternanza di stati d’animo più rapidi, anche quotidiani. Infine - e questo consente di stilare una diagnosi - le conseguenze sull’individuo sono diverse. Chi si mette ad acquistare duecento confezioni di tonno all’olio «perché sono in promozione», come ci ha raccontato uno psichiatra, o chi trascorre la notte al telefono con «la persona che amo perché stavo pensando a lei» è probabilmente bipolare.
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(1) Tratto da Le Figaro, 29.11.2012.
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Portare il dolore con melodioso lamento
Venerdì 23 novembre 2012 • Post di Mariano Tomatis
Nell’estate 1904 Franz Xaver Kappus (1883-1966) stava attraversando un momento difficile. Mentre si trovava in viaggio in Svezia, il poeta austriaco Rainer Maria Rilke (1875-1926) consigliò a Kappus di non opporsi alla sofferenza, ma di accoglierla in modo consapevole:
Ami la sua solitudine, e porti il dolore che essa le procura con melodioso lamento. È importante essere solitari e attenti, quando si è tristi: perché l’istante in apparenza vuoto e fermo in cui il nostro futuro accede a noi, è tanto più vicino alla vita di quell’altro momento chiassoso e casuale in cui esso, come da fuori, sopravviene. Caro signor Kappus, non si deve spaventare se davanti a lei sorge una tristezza, grande quanto non ne ha mai vedute prima. Perché vuole escludere dalla sua vita una qualche irrequietezza, una qualche pena, una malinconia, se ignora cosa tali stati stiano operando in lei? Se qualcosa nei suoi stati d’animo le appare malato, rifletta che la malattia è il mezzo con cui un organismo caccia l’intruso; dunque bisogna solo aiutarlo a essere malato, a vivere tutta la malattia e a farla erompere, poiché questo è il suo progresso.(1)
Tutte le “Lettere a un giovane poeta” firmate da Rilke sono un invito a cercare nella poesia una fonte inesauribile di senso:
Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri. E se anche si trovasse in una prigione; le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà, la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi. Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della sua vita.(2)
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(1) Lettera di Rainer Maria Rilke a Franz Xaver Kappus, Borgeby Gàrd Flädie (Svezia), 12.08.1904.
(2) Lettera di Rainer Maria Rilke a Franz Xaver Kappus, Parigi (Francia), 17.02.1903. I due testi mi sono stati segnalati da SL che ringrazio.
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Il teschio di clown di Vik Muniz
Sabato 10 novembre 2012 • Post di Mariano Tomatis
Si è preso un colpo di pistola per sbaglio, e con il risarcimento milionario che ha ricevuto, ha potuto esaudire un sogno: trasferirsi a New York e diventare artista a tempo pieno.
È la curiosa storia di Vik Muniz, scultore brasiliano che ama definirsi "illusionista a bassa tecnologia".
In questi giorni, nell’ambito della mostra Freedom not Genius che raccoglie alcune opere della Murderme collection di Damien Hirst, è esposto a Torino il suo teschio di clown.
L’incrocio ambivalente tra il richiamo funebre e la vitalità della risata è il risultato di un’ironia che contraddistingue molte delle opere di Muniz.
L’umorismo è uno strumento eccezionale perché permette di abbassare le difese dello spettatore e presentargli le idee più bizzarre.
Vik Muniz (2012).
Image by Vik Muniz «Clownskull (Vulgaris)» (1990-1993).
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Lunedì 5 novembre 2012 • Post di Mariano Tomatis
Due punti, parentesi e altri due punti. È la brillante emoticon ufficiale dei ciclotimici. Basta scegliere il lato verso cui inclinare la testa.(1)
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(1) Ringrazio Manuela Scialpi per la segnalazione.
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