Martedì 1 dicembre 2015 • Post di Mariano Tomatis
Tra il pubblico della mia presentazione alla Libreria "Sognalibro" di Borgo San Dalmazzo (CN) c'era anche Alberto Mazzariello, un giovane autore di graphic novel. Avendogli espresso interesse per la sua opera, Alberto mi ha fatto dono di “Il tempo di una R.M. onirica”, il diario di un claustrofobico viaggio in una macchina per la risonanza magnetica da parte di un paziente oncologico.
Ho molto apprezzato la sua lettura per la sintonia che vi ho trovato con il mio approccio al dolore e alla sofferenza. L’onirismo e la discesa nei recessi dell’oscurità sono due risorse potenti per affrontare i momenti difficili, specie quando si torna al quotidiano e si traduce in immagini e parole quel viaggio, senza la pretesa di ricondurre tutto alla razionalità, quanto piuttosto cercando nell’arte quelle metafore che meglio approssimano simbolicamente quanto si è vis(su)to. Il che non si traduce nella banale e abusata espressione di “dare un senso alla malattia”. Allergico all’idea, attribuisco maggior valore al racconto in sé, meglio se sporco e inquinato da una profonda soggettività; cercando i termini (visivi, soprattutto) con cui ricostruire quella storia, attraverso quelle immagini, quei colori e quelle distorsioni, quei violenti contrasti e quei tratti sfumati, Alberto restituisce le parole a chi sta vivendo in solitudine gli stessi incubi — ma non trova il modo per descriverli. Raccontare è anche spurgarsi, e non a tutti è concessa una liberazione del genere.
Completa l’opera un breve saggio sul fenomeno psicologico della “Derealizzazione”,
una manifestazione ansiosa relativa a quella separazione dalle certezze abituali che è abbinata ai processi di crisi e di cambiamento. […] Più il soggetto è passivamente aggrappato al suo mondo abituale, più la sua differenziazione psicologica indurrà fenomeni di ansia e di panico; più il soggetto, viceversa, è fiducioso dei segnali che gli provengono dal mondo interno, meno avrà paura dell’apparente “stranezza” del suo distacco emotivo, affettivo e percettivo dal mondo esterno.
Un compendio dal freddo linguaggio scientifico che integra la graphic novel, offrendo un contrasto violento tra le espressioni tipiche del “medichese” e l’inquietante discesa nei meandri di una psiche — paradossalmente lucida — in preda al terrore.
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Lunedì 30 marzo 2015 • Post di Franco Berardi
Dicono che il giovane pilota Andreas Lubitz avesse sofferto di crisi depressive e avesse tenuto nascoste le sue condizioni psichiche all’azienda per cui lavorava, la Lufthansa. I medici consigliavano un periodo di assenza dal lavoro. La cosa non è affatto sorprendente: il turbo-capitalismo contemporaneo detesta coloro che chiedono di usufruire dei permessi di malattia, e detesta all’ennesima potenza ogni riferimento alla depressione. Depresso io? Non se ne parli neanche. Io sto benissimo, sono perfettamente efficiente, allegro, dinamico, energico, e soprattutto competitivo. Faccio jogging ogni mattina, e sono sempre disponibile a fare straordinario. Non è forse questa la filosofia del low cost? Non suonano forse le trombe quando l’aereo decolla e quando atterra? Non siamo forse circondati ininterrottamente dal discorso dell’efficienza competitiva? Non siamo forse quotidianamente costretti a misurare il nostro stato d’animo con l’allegria aggressiva delle facce che compaiono negli spot pubblicitari? Non corriamo forse il rischio di essere licenziati se facciamo troppe assenze per malattia?
Adesso i giornali (gli stessi giornali che da anni ci chiamano fannulloni e tessono le lodi della rottamazione degli inefficienti) consigliano di fare maggiore attenzione nelle assunzioni. Faremo controlli straordinari per verificare che i piloti d’aereo non siano squilibrati, matti, depressi, maniaci, malinconici tristi e sfigati. Davvero? E i medici? E i colonnelli dell’esercito? E gli autisti dell’autobus? E i conducenti del treno? E i professori di matematica? E gli agenti di polizia stradale?
Epureremo i depressi. Epuriamoli. Peccato che siano la maggioranza assoluta della popolazione contemporanea. Non sto parlando dei depressi conclamati, che pure sono in proporzione crescente, ma di coloro che soffrono di infelicità, tristezza, disperazione. Anche se ce lo dicono raramente e con una certa cautela l’incidenza delle malattie psichiche è cresciuta enormemente negli ultimi decenni, e il tasso di suicidio (secondo il rapporto del World Health Organization) è cresciuto del 60% (wow) negli ultimi quarant’anni.
Quaranta anni? E che potrà mai significare? Che cosa è successo negli ultimi quarant’anni perché la gente corra a frotte verso la nera signora? Forse ci sarà un rapporto tra questo incredibile incremento della propensione a farla finita e il trionfo del Neoliberismo che implica precarietà e competizione obbligatoria? E forse ci sarà un rapporto anche con la solitudine di una generazione che è cresciuta davanti allo schermo ricevendo continui stimoli psico-informativi e toccando sempre di meno il corpo dell’altro? Non si dimentichi che per ogni suicidio realizzato ce ne sono circa venti tentati senza successo. E non si dimentichi che in molti paesi del mondo (anche in Italia) i medici sono invitati a essere cauti nell’attribuire una morte al suicidio, se non ci sono prove evidenti dell’intenzione del deceduto. E quanti incidenti d’auto nascondono un’intenzione suicida più o meno cosciente?
Non appena le autorità investigative e la compagnia aerea hanno rivelato che la causa del disastro aereo sta nel suicidio di un lavoratore che ha sofferto di crisi depressive e le ha tenute nascoste, ecco che in Internet si è messo in marcia il solito esercito di cospirazionisti. “Figuriamoci se ci credo”, dicono quelli che sospettano il complotto. Ci deve essere dietro la CIA, o forse Putin, o magari semplicemente un gravissimo errore della Lufthansa che ci vogliono tenere nascosto. Un vignettista che si firma Sartori e crede di essere molto spiritoso mostra un tizio che legge il giornale e dice: “Strage Airbus: responsabile il copilota depresso.” Poi aggiunge: Fra poco diranno che anche l’ISIS è fatta da depressi.”
Ecco, bravo. Il punto è proprio questo: il terrorismo contemporaneo può avere mille cause politiche, ma la sola causa vera è l’epidemia di sofferenza psichica (e sociale, ma le due cose sono una) che si sta diffondendo nel mondo. Si può forse spiegare il comportamento di uno shaheed, di un giovane che si fa esplodere per uccidere una decina di altri umani in termini politici, ideologici, religiosi? Certo che si può, ma sono chiacchiere. La verità è che chi si uccide considera la vita un peso intollerabile, e vede nella morte la sola salvezza, e nella strage la sola vendetta. Un’epidemia di suicidio si è abbattuta sul pianeta terra, perché da decenni si è messa in moto una gigantesca fabbrica dell’infelicità cui sembra impossibile sfuggire. Quelli che dappertutto vedono un complotto dovrebbero smetterla di cercare una verità nascosta, e dovrebbero invece interpretare diversamente la verità evidente. Andreas Lubitz si è chiuso dentro quella maledetta cabina di pilotaggio perché il dolore che sentiva dentro si era fatto insopportabile, e perché accusava di quel dolore i centocinquanta passeggeri e colleghi che volavano con lui, e tutti gli altri esseri umani che come lui sono incapaci di liberarsi dall’infelicità che divora l’umanità contemporanea, da quando la pubblicità ci ha sottoposto a un bombardamento di felicità obbligatorio, da quanto la solitudine digitale ha moltiplicato gli stimoli e isolato i corpi, da quando il capitalismo finanziario ci ha costretto a lavorare il doppio per guadagnare la metà.
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Sugli effetti depressivi dei social network
Lunedì 2 giugno 2014 • Post di Mariano Tomatis
Hui-Tzu Grace Chou e Nicholas Edge hanno scoperto che frequentare i social network può avere effetti depressivi, stimolando il pensiero che gli altri stiano meglio di noi. Ciò sarebbe da imputare alle facce sistematicamente sorridenti e smaglianti ritratte nei profili personali degli utenti; molti di loro, infatti, pubblicano foto di sé che li ritraggono in situazioni gaudenti e in ottima forma.
Sulla situazione ha ironizzato Ryan Pagelow in una striscia di "Buni" pubblicata su Internazionale:
Internazionale 1052, 23.5.2014.
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Sabato 19 aprile 2014 • Post di Mariano Tomatis
Il libro di Alain De Botton e John Armstrong Arte come terapia esplora i modi in cui l’arte può offrirci un sostegno per affrontare il quotidiano. Commentando — da un punto di vista laico — il noto crocifisso di Diego Velazquez (1632) i due scrivono:
Il cristianesimo è pienamente consapevole del fatto che le nostre vite possano essere gravate dalla sofferenza: ritiene, infatti, che la perdita, il rimprovero di sé, il fallimento, il rimpianto, la malattia e la tristezza trovino sempre un modo per entrare nella nostra vita. Quando abbiamo un problema, abbiamo bisogno di aiuto per risolverlo, naturalmente. Ma il cristianesimo segnala un’altra esigenza altrettanto importante: quella di riconoscere, alle nostre sofferenze, una qualche forma di onore e di dignità.
Questa immagine della Crocifissione dà dignità alla sofferenza. Essa mostra un buon modo — anzi, un modo perfetto — di essere umiliati, feriti e infine uccisi. Un modo teneramente in sintonia con il dolore, privo di un atteggiamento isterico o vendicativo. Ci invita a contemplare la centralità della sofferenza nel raggiungimento di tutti gli obiettivi importanti. Piuttosto che concentrarsi sul momento del raggiungimento di un obiettivo — quando si sente la gioia del successo — rivolge la nostra attenzione sui momenti di difficoltà e di sacrificio, dicendo che sono i più importanti, i più meritevoli di ammirazione. Così facendo, ci rafforza un minimo — e offre una qualche consolazione — di fronte ai più importanti compiti della nostra vita.
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Venerdì 18 aprile 2014 • Post di Mariano Tomatis
Nella costante ricerca di un sollievo dalle difficoltà quotidiane, si può fare appello a qualsiasi cosa - addirittura al trash. Scoprendo che perfino le idee più becere possono alleggerire l’animo. È il caso della cover del telefono di Alessandra Mussolini.
Keep calm un cazzo.
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Domenica 13 aprile 2014 • Post di Mariano Tomatis
Fu uno dei più grandi alpinisti del Novecento. Aveva una concezione estetica della scalata, la cui plasticità poteva aspirare a ideali di armonia e proporzione. Nell’epoca della retorica fascista, Emilio Comici (1901-1940) era una guida alpina insolita, con un approccio antieroico alla montagna:
Va in montagna che pare un poeta o un ballerino. Il fascismo mica vuole ballerini: vuole guerrieri. In montagna s’ha da essere marziali, la montagna è sacrificio, è ferrea disciplina. Comici ha un corpo da statua di Fidia, ma di marziale ha ben poco. In certe foto scattate in vetta sembra uscito da un quadro di Manet.(1)
E poi Emilio è gravemente ciclotimico — forse addirittura bipolare. Partendo da questo tratto, apparentemente marginale, Wu Ming 1 e Roberto Santachiara ne ricostruiscono vita e tormenti in Point Lenana (Einaudi 2013), un romanzo-saggio che mostra quanto siano fertili i punti di vista obliqui sulle esperienze umane.
Ricostruendo la scalata del Sorapiss del 26-27 agosto 1929, gli autori descrivono la teoria di Comici della «goccia cadente»:
L’impresa deve compiersi salendo per la via più diritta, verticale, esteticamente appagante. Quella che seguirebbe una goccia d’acqua scendendo dalla cima. Ma la vita non è così, salite e discese sono molto meno lisce. Emilio vivrà la celebrità in modo tormentato, oscillando tra un ridanciano vitalismo e repentine malinconie, compiendo scelte di vita radicali, spesso influenzate da bruschi sbalzi d’umore.(2)
Insieme al gruppo musicale Funambolique Wu Ming 1 sta portando in giro per l’Italia lo spettacolo “Emilio Comici Blues”, un concerto in cui l’altalena emotiva del celebre alpinista viene raccontata musicalmente, intrecciata a frammenti di Point Lenana che vengono letti, recitati e cantati: un reading musicale la cui potenza narrativa mi ha messo i brividi, quando ho avuto occasione di vederlo live lo scorso 5 aprile 2014 durante il Valsusa Film Fest.
Emilio Comici morirà per un banale incidente di montagna a soli 39 anni, ispirando alla poetessa Antonia Pozzi versi struggenti da cui emergono — volto luminoso dell’ambivalenza — follia e stupore:
Si spalancano laghi di stupore
a sera nei tuoi occhi
fra lumi e suoni:
s’aprono lenti fiori di follia
sull’acqua dell’anima, a specchio
della gran cima coronata di nuvole…
Il tuo sangue che sogna le pietre
è nella stanza
un favoloso silenzio.
Antonia Pozzi (Misurina, 7 agosto 1938)
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(1) Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, Point Lenana, Einaudi, Torino 2013, p. 269.
(2) Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, op. cit., p. 229.
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Giovedì 10 aprile 2014 • Post di Mariano Tomatis
I ciclotimici — la cui tendenza a fare gli sgnaccamaroni è pericolosamente alta — possono trovare grande sollievo nell’autoironia. Nella sua serie a fumetti Rat-Man Leo Ortolani offre stimoli in abbondanza per smettere di prendere troppo sul serio le proprie miserie.
Leo Ortolani, «Il Grande Magazzi e la donna filosofale», Rat-Man, n. 89, (marzo 2012), tavola 17.
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Kierkegaard e la duplice natura dell’ansia
Giovedì 27 giugno 2013 • Post di Mariano Tomatis
“La fuga e il silenzio”, la mostra personale di Miro Gianola, verrà inaugurata tra un mese esatto. Il catalogo dell’esposizione presenterà questo mio breve commento in margine a una delle opere proposte.
Non è paradossale il grido silenzioso ritratto da Miro Gianola in “Ululatus”? Già Søren Kierkegaard aveva riflettuto sulla duplice e misterosa natura dell’ansia, che “si può esprimere al contempo con il silenzio o con un urlo.”(1) Il filosofo si riferiva all’ansia dell’artista, che chiamava “la vertigine della libertà”(2): come in montagna ci si ritrae di fronte a uno strapiombo, chi crea avverte un simile senso di vertigine davanti alle infinite possibilità che ha di fronte. Si tratta di uno scacco terribile. Lo spirito anela all’infinito, ma la mano ha a disposizione tele limitate, pochi colori e una vita destinata a finire. Anche i letterati lo conoscono, chiamandolo “blocco dello scrittore”. Ma vertigine non vuol dire paralisi. Conoscere l’ansia non vuol dire arretrare di fronte alla possibilità di mettersi in gioco. Di fronte al precipizio, Miro effettua il salto della fede. Fiducia nell’atto creativo, nella possibilità di ritrarre lo scacco e offrirlo — irrisolto — a chi osserva. In un’epoca di predicatori che dispensano verità assolute, possiamo essere grati per le paradossali provocazioni che Miro offre con delicatezza e grande forza espressiva.(3)
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(1) Søren Kierkegaard, The Concept of Dread, University Press, Princeton 1957, p. 106.
(2) Søren Kierkegaard, op. cit., p. 54.
(3) Mariano Tomatis in Federica Zangirolami (ed.), Miro Gianola - La fuga e il silenzio, catalogo dell’omonima mostra, Focus Grafica, Castellamonte 2013, p. 14.
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La donna di picche e il diritto di avere la faccia triste
Sabato 25 maggio 2013 • Post di Mariano Tomatis
Ci sono dettagli che ti passano sotto gli occhi un'infinità di volte — troppe perché tu possa accorgertene. Poi arriva qualcuno che te li fa notare, e la prima cosa che ti viene in mente è di metterli nero su bianco. In questo caso, a beneficio di chi — come i lettori di questo blog — rivendicano il diritto di avere la faccia triste.
Ieri Silvia ha assistito a uno spettacolo di magia, e dopo aver raccolto una carta da gioco, le ha dedicato qualche riga su Facebook:
Ho sempre provato molta più simpatia per la donna di picche che per quella di cuori. Non deve essere bella per forza, soddisfare aspettative, subire la continua scelta quando chiedono: «Pensa a una carta.» La donna di picche è quella che è. Con le occhiaie e il diritto di avere la faccia triste.(1)
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(1) Silvia Bianco, post Facebook del 25 maggio 2013.
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Giovedì 16 maggio 2013 • Post di Mariano Tomatis
Se la ciclotimia si manifesta in maniera più o meno bilanciata tra donne e uomini, le narrative che evoca in ciascun genere sono diverse ma accomunate da un grave senso di inadeguatezza.
Nel suo libro Il silenzio degli uomini Iaia Caputo denuncia la retorica che offre diritto di cittadinanza alla sola perfezione — una condizione anni luce dalla grigia mediocrità e profonda incompletezza in cui la ciclotimia periodicamente scaglia le sue vittime. Opponendosi alla ricerca febbrile di uno status senza macchia né paura, la scrittrice propone l'erezione di monumenti che celebrino il limite e la paura:
La retorica di uno sfolgorante coraggio maschile ha fatto tra gli uomini tante vittime quante ne ha causate tra le donne quella della maternità esente da ombre e priva di ambivalenze. E magari sarebbe ora di erigere, in una furia iconoclasta e liberatoria, un monumento alla Paura: quella patita da infinite generazioni di uomini senza che fosse loro consentito di riconoscerla, dunque di nominarla. [...] Se la violenza è paura raggelata, scagliata fuori di sé contro chi si teme quanto più si immagina di non conoscerlo, nemico, straniero, donna che sia, riconoscere la paura come legittima e possibile quanta violenza potrebbe evitare?(1)
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(1) Iaia Caputo, Il silenzio degli uomini, Feltrinelli, Milano 2012.
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Thomas Pynchon: il Banksy della letteratura
Mercoledì 8 maggio 2013 • Post di Mariano Tomatis
Chi è ciclotimico tollera con difficoltà una cultura di massa che celebra soltanto la vittoria, la ricchezza e il successo. Oggi è il 76° compleanno di Thomas Pynchon, lo scrittore statunitense pluricandidato al premio Nobel, considerato tra i più grandi autori postmoderni. La sua "poetica del preterito" mette al centro gli ultimi, i perdenti e i sommersi, sfidando la cultura dominante perfino con la sua "assenza" fisica: come il writer Banksy, Pynchon ha deciso di non apparire in pubblico, facendo la scelta di parlare solo attraverso le sue opere.
Due caratteristiche ne segnano la cifra stilistica: una smodata curiosità per tutto ciò che è dimenticato — siano persone, fatti, luoghi o tecnologie — e un gusto per la sovrabbondanza di dettagli, le storie eccessive e inverosimili e le centinaia di riferimenti a fatti storici, veri e inventati.
Il suo stile di scrittura è talmente labirintico e rutilante da aver indispettito molti critici, ma al contempo l’ha trasformato in un autore di culto.
Avendo studiato fisica a Cornell, nei suoi romanzi propone vertiginose contaminazioni tra umanesimo e scienza. Giuseppe Salzano ne rileva così il deviato gusto enciclopedico:
[Pynchon] mette in luce, attraverso una fitta rete di richiami, le connessioni occulte della realtà e si nutre di ogni aspetto della cultura popolare: il jazz, il romanzo giallo, il pulp, la fantascienza, il fumetto, la musica, le guide turistiche, i B-movie, senza contare gli innumerevoli contenuti a carattere scientifico-divulgativo: fisica, statistica, cibernetica, elettronica, teoria dell’informazione, biologia, chimica, neuro–fisiologia, balistica ed elettronica. In ultima istanza, la Tecnica e la Tecnologia assurgono ad autentiche protagoniste della scena.(1)
Come un illusionista della parola, Pynchon racconta storie vere che sembrano false e viceversa; al lettore attento, però, offre sempre tutti gli elementi per documentarsi e distinguere verità e menzogna; in questo modo, persegue in maniera lucida l’obiettivo della "meraviglia senza inganno" teorizzata da Michael Saler nel suo As If.
Nel suo noir Vizio di forma il rapporto complesso tra vero e falso è condensato in uno scambio fulminante:
Gli investigatori privati dovrebbero stare alla larga dalla droga, tutti quegli universi alternativi non fanno che complicare un bel po’ il lavoro.
«E allora che mi dici di Sherlock Holmes? Ehi, quello si faceva di coca in continuazione, gli serviva per risolvere i casi.»
«Vero, ma… non è mai esistito!»
«Cosa? Sherlock Holmes era…»
«È un personaggio inventato di una serie di racconti, Doc.»
«Macch… No-o. No, esiste eccome. C’è anche l’indirizzo dove abita, a Londra. Cioè, forse adesso non più, anni fa… ormai deve essere morto.»(2)
Un capitolo del romanzo V. è dedicato a uno strano popolo africano sterminato nel 1904 dai tedeschi. Le vicende sono trattate come se si trattasse di finzione romanzesca, ma se si seguono gli indizi disseminati qua e là, ci si accorge che Pynchon ha riportato alla luce la vera (e tragica) vicenda degli Herero, ricostruita con meticolosa cura e grande intensità emotiva. Lo scrittore statunitense esplora le pieghe della storia per raccontare vicende dimenticate, incarnando quella che i critici chiamano la "poetica del preterito".
Giuseppe Salzano l’ha definito:
un marginato che si aggira per le discariche della letteratura collezionando articoli di riviste scientifiche, bollettini militari, ricette mediche, sceneggiature rifiutate da Hollywood, copioni teatrali dimenticati, rimasugli di antiche leggende e vecchi stralci di giornale, restituendocele nella grandiosità delle sue pagine.(3)
Un gusto che Joshua Held cattura in questa divertente elaborazione grafica:
Un grazie a Joshua Held per l'autorizzazione a pubblicare questa sua creazione.
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(1) Giuseppe Salzano, "L’arcobaleno della gravità (T.Pynchon)" in Letteratu (blog), 8.9.2011.
(2) Thomas Pynchon, Vizio di forma, Giulio Einaudi Editore, Torino 2011 (traduzione di Massimo Bocchiola).
(3) Giuseppe Salzano, op. cit.
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È l’accumulo di fede a creare la propria veridicità
Lunedì 6 maggio 2013 • Post di Mariano Tomatis
Orson Welles (1915-1985) avrebbe compiuto oggi 98 anni. In un’intervista di Kenneth Tynan, pubblicata nel 1967 su Playboy, Welles parla delle contraddizioni e di come — a volte — sia necessario conviverci senza trovare a tutti i costi una conciliazione.
Credi in Dio?
Posso non essere un credente, ma sono certamente religioso. In qualche strano modo, io accetto addirittura la divinità di Cristo. È l’accumulo di fede a creare la propria veridicità. Lo fa in senso junghiano, perché la fede può rendere vero qualcosa in un modo che è quasi reale come la vita stessa.
Se mi chiedete se il giudeo che fu crocifisso era Dio, la risposta è no. Ma l’idea giudaico-cristiana che trovo irresistibile è che l’uomo — non importa quali antenati abbia avuto o quanto il suo patrimonio genetico sia distante da quello di qualsiasi scimmia assassina — è davvero unico. Se siamo capaci di amore reciproco gratuito, questo ci rende assolutamente soli, come specie, su questo pianeta. Non c’è un altro animale che, in questo, ci assomiglia lontanamente. La nozione della divinità di Cristo è solo un altro modo per dirlo. Ecco perché il mito è vero. Nel più alto senso tragico, non fa che proporre in forma drammatica l’idea che l’uomo è divino.
Ma come si concilia questo con—
Per 30 anni le persone mi hanno chiesto come X si concilia con Y! La risposta sincera è che non si conciliano affatto. Tutto in me è contraddittorio, e lo stesso vale per tutte le persone che conosco. Siamo fatti di opposizioni, viviamo tra due poli opposti. C’è un filisteo e un esteta in tutti noi, e un assassino e un santo. Non si conciliano gli opposti. Al massimo puoi rilevarli.
Kenneth Tynan, “Playboy Interview: Orson Welles” in Playboy (marzo 1967).
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