Giovedì scorso ho assistito alla crocefissione pubblica del giovane mago che ha vinto Italia’s Got Talent: un attacco sferrato su YouTube dai colleghi illusionisti più anziani, le cui ingiurie contenevano il continuo riferimento a una generica sex worker definita – non si sa bene perché – “porca”. In quell’arena testosteronica, la donna faceva capolino nei discorsi come un intercalare naturale, associata al disgusto, allo scandalo e all’orrore per la performance televisiva. Ne ho concluso sgomento che la magia dei prestigiatori ha trovato il modo di essere sessista perfino in assenza di una donna.
Ho quindi accolto con sollievo l’annuncio dell’uscita di Sex work e colonialismo, il breve saggio in tre parti di Linda Porn tradotto dal collettivo Ombre rosse e curato – tra le altre – da due affezionate compagne di lotta: Antonia Caruso e Fluida Wolf. Il libro getta uno sguardo obliquo sul lavoro sessuale, denunciando l’atteggiamento classista e colonialista che ci caratterizza come società e illuminando i rischi di un approccio abolizionista al tema.
L’ho acquistato incuriosito e perplesso dal titolo della prima parte: quale rilevanza poteva avere, per me, uno studio sul “Lavoro sessuale nel Messico Antico”? Capovolgendo ogni mia aspettativa, è stata la parte che ha maggiormente cliccato con il mio immaginario magico. L’autrice introduce la figura delle ahuianime nella società Atzeca, lavoratrici sessuali rispettate perché impegnate nella cura di una forza essenziale della vita – la sessualità – da valorizzare in opposizione alla morte. Offendere le ahuianime era considerato un sacrilegio.
Il passaggio chiave, rispetto ai miei interessi, è quello in cui Linda Porn spiega che – secondo gli Aztechi – la vocazione delle ahuianime era legata al giorno in cui nascevano. L’immagine mi ha riportato indietro di dieci anni, quando ero impegnato nella scrittura di 2012. È in gioco la fine del mondo (Iacobelli 2010). Analizzando le leggende sull’apocalisse che si diceva incombere il 21 dicembre 2012, avevo preso in esame il calendario Maya, imbattendomi in immagini astrologiche meravigliosamente vivide. Come noi abbiamo dedicato alla Luna il lunedì, a Marte il martedì, a Mercurio il mercoledì e così via, anche le Maya utilizzavano i nomi delle divinità per battezzare i loro giorni: Ahau come il dio del Sole, Ymix come la dea della Terra, Kan come il dio del granoturco, ecc. Per questo, i loro almanacchi non servivano solo a contare i giorni ma anche a documentare i periodi propizi per le diverse attività. Se oggi chiediamo a Frate Indovino quali sono i giorni migliori per la semina, all’epoca il calendario Tzolkin forniva la stessa informazione, segnalando che il periodo giusto cadeva tra l’8 e il 9 Kan – mentre per il parto era buona norma aspettare il giorno di Ix Chel. Se ci sentissero dire che “Né di Venere né di Marte non si sposa e non si parte”, le Maya annuirebbero: “Noi diciamo che ’Quando è il giorno di Ix Chel dea oscura, si può nascere, guarire e ci si cura’”.
Non conosco il calendario Azteco con altrettanta precisione, ma quello Maya presentava 260 giorni base, e con essi altrettanti profili di personalità: trovo del tutto ragionevole che le ahuianime occupassero uno degli altrettanti slot e che sulle persone nate in quel giorno (o nei dintorni) spirasse quella vocazione. Se miriamo ad abbattere il binarismo di genere, perché dovremmo accontentarci di un pensiero trinitario, di una struttura di personalità a enneagramma, di dodici segni zodiacali o delle sessantaquattro combinazioni dell’I-Ching? Trovo azzeccata l’idea Maya di fornirci duecentosessanta caselle: è una varietà che rende giustizia alle sfumature più sottili dei nostri caratteri, delle nostre aspirazioni e dei nostri desideri. Ma poiché non era loro intenzione incasellarci, l’immagine va integrata da un dettaglio chiave nella resa pittorica dei calendari mesoamericani: il tempo che scorre è rappresentato da una staffetta di divinità che transitano da un luogo all’altro, richiamando un dinamismo fondamentale – la possibilità di muoversi da una vocazione alla successiva, da un desiderio al suo contrario. In una celebrazione del molteplice che sfida ogni dogmatismo e miope normatività.
Immagine della dea Tlazoltéotl
Linda Porn spiega che nel calendario Azteco c’è spazio per Tlazoltéotl, la dea del piacere carnale. Il suo nome significa letteralmente “la dea della porcheria”, e per me – reduce da un giovedì sera di passioni tristi – ha il suono di una preghiera di riscatto.
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