Sabato 6 ottobre 2018 alle ore 11 prendo parte alla tavola rotonda organizzata a Pavia nell’ambito di Videogiocanda 2018: una discussione appassionata e transmediale sul videogioco come arte performativa e del videogioco come medium capace di svolgere un ruolo documentario, educativo, esplicativo. Insieme alla Direttrice a Pavia del Museo per la Storia dell’Università e del Museo di Fisica Lidia Falomo Bernarduzzi, all’attrice di improvvisazione Chiara Vitti e al regista Filippo Ticozzi, ci confronteremo col medium videoludico stimolati dalle domande dell’organizzatore dell’evento, Mauro Vanetti, e di Maddalena Grattarola dell’associazione Game Happens, gruppo che ha curato i giochi dello showcase pomeridiano. A ciascuno di noi relatori sono stati affidati due titoli da giocare e far entrare in risonanza con le rispettive attività. Gli appunti che seguono documentano lo sguardo di un illusionista su ISLANDS: Non-Places (2016) di Carl Burton e Gorogoa (2017) di Jason Roberts.
Locandina di Matteo Piovani.
All’inizio di ogni settimana, sulle timeline di alcuni amici compare questa brillante considerazione:
Tu non odi i lunedì: odi il capitalismo.
Parte dell’efficacia della frase è dovuta alla sorpresa: “lunedì” e “capitalismo” sono termini talmente distanti che il loro accostamento produce un piccolo e memorabile shock. Quelle poche parole sono una secchiata di vernice gettata sull’uomo l’invisibile: toccano un tasto dolente, palesano il vero responsabile dei nostri disagi, danno un volto al nemico e convogliano le nostre energie contro chi davvero ci rende la vita difficile.
Realismo capitalista (2009) di Mark Fisher opera lo stesso meccanismo di mobilitazione in maniera più estesa e sistematica. Facendo notare che il capitalismo è difficile da percepire perché è un’entità distribuita senza un centro preciso, il libro tocca un altro tasto dolente per aiutarci a focalizzarlo:
L’esperienza che più si avvicina a metterci in diretto contatto con l’assenza di centro del capitalismo è quella del call center. In quanto consumatori dell’evo tardo capitalista, più passa il tempo più esistiamo in due realtà distinte e separate: da una parte, quella in cui i servizi ci vengono prestati senza intoppi di sorta; dall’altra, una realtà completamente diversa: il folle labirinto kafkiano dei call center, un mondo privo di memoria in cui i meccanismi di causa ed effetto si legano tra loro in maniera misteriosa e imperscrutabile, dove è già un miracolo se qualcosa si muove e dove ogni speranza di riapprodare dall’altra parte, quella dove le cose filano lisce e senza strappi, prende e se ne va in fumo. Cosa esemplifica meglio di un call center il fallimento neoliberale nell’essere all’altezza delle sue stesse campagne (auto)promozionali? (1)
Se nel nostro orizzonte ci sono migliaia di ore di rabbia per telefoni che squillano a vuoto, chiamate che saltano e labirinti di tasti da premere per tornare al menu principale, non vale la pena convertire tutta quell’energia in carburante utile a qualcosa? Senza la consapevolezza che quella frustrazione è un prodotto naturale del sistema economico che ci siamo scelti, la rabbia è
condannata a restare impotente perché priva di un oggetto concreto, visto che – come chi si rivolge a un call center impara in fretta – nessuno sa niente e nessuno può nulla. La rabbia può tuttalpiù limitarsi allo sfogo, all’attacco a vuoto, all’aggressione nei confronti di un tuo simile, vittima anch’egli del sistema ma nei confronti del quale non è possibile alcuna comunanza solidale. E così come la rabbia non ha oggetto, non avrà nemmeno effetto. (2)
Mark Fisher riconosce nel “call center” un altro “lunedì”:
È nell’esperienza di un sistema tanto impersonale, indifferente, astratto, frammentario e senza centro, che più ci avviciniamo a guardare negli occhi tutta la stupidità artificiale del Capitale. (3)
Aspettando di essere servito in un ristorante McDonald, il beep di allarme emesso della friggitrice mi ha messo di fronte allo stesso scenario: la macchina ha un timer che segnala quando è stato raggiunto il punto di cottura; per indicare che è il momento di sollevare le patatine dall’olio, fa partire un suono assordante: un sibilo che inizia con una certa frequenza ma che gradualmente la intensifica e sale di volume.
L’obiettivo è di spaccare i timpani dei dipendenti, costringendoli a dare priorità alla macchina e obbedire all’ordine che farà interrompere il suono.
Quel sibilo così violento è del tutto incurante delle condizioni di salute del dipendente, del suo umore e del suo mondo interiore: il beep è al servizio del Capitale e non degli individui che fanno funzionare il ristorante. Nato per massimizzare la produttività, l’allarme minimizza le perdite dovute alle patatine bruciate ed è la materializzazione della spietatezza del capitalismo verso i singoli impiegati. Se Charlie Chaplin girasse oggi Tempi moderni (1936), invece di ritrarre operai stritolati dagli ingranaggi metterebbe in scena teste che esplodono a causa del trillo di una friggitrice.
ISLANDS: Non-Places (2016) di Carl Burton è un raffinato ritratto interattivo dell’ipermodernità che ha risvolti emotivi simili. Il videogioco consente di esplorare dieci isole ricavate all’interno di altrettanti nonluoghi: aeroporti, parcheggi, centri commerciali, outlet – spazi senza identità e senza passato in cui gli individui (peraltro presenti solo nella forma di un brusio indistinto) si incrociano senza entrare in relazione. L’interazione è minimale e i pochi clic necessari per far progredire i vari scenari producono effetti surreali, assurdi, incomprensibili.
Mark Fisher scrive che
non esiste niente che sia innatamente politico: la politicizzazione richiede un agente politico che trasformi il dato-per-scontato in una terra-di-conquista. (4)
Giocando a ISLANDS mi sono sentito chiamato in causa come agente politico: la weirdness evocata da Burton va incorniciata come il call center di Fisher, facendo notare quanto sia coerente con lo stato di alienazione prodotto da quei luoghi nel nostro mondo fisico.
Non esistono videogiochi in grado di sottrarsi a una lettura politicizzata – neppure “il videogioco più brutto del mondo”. Desert Bus (1995) si svolge a bordo di un pullman che percorre il rettilineo di quasi 600 km tra Las Vegas e Tucson. L’automezzo è malandato: non può superare i 70 km/h e le ruote tendono a deviarlo su un lato; anche se la strada è tutta dritta, è necessario correggere continuamente la rotta. Il gioco si svolge in tempo reale: il giocatore guida per otto ore su una strada deserta, senza incontrare anima viva; lungo il tragitto non c’è traffico e l’unica distrazione è rappresentata dal palo di una fermata o da una pietra. Giunto a destinazione, il giocatore totalizza 1 punto e ha pochi secondi per decidere se tornare a Las Vegas: in caso positivo, dopo altre otto ore di gioco può guadagnare un secondo punto e ripartire da capo; per ogni viaggio c’è un singolo punto in palio.
La folle idea viene dal duo di illusionisti Penn & Teller, che a metà degli anni Novanta realizzarono una raccolta di videogiochi per Sega CD: Penn & Teller’s Smoke and Mirrors conteneva giochi di prestigio interattivi (come Mofo the Psychic Gorilla, basato su un metodo simile a questo) e alcuni mini-giochi surreali, il più celebre dei quali divenne Desert Bus. La raccolta era la versione videoludica di Penn & Teller’s Cruel Tricks for Dear Friends (1987), una videocassetta che proponeva giochi di prestigio interattivi basati sulle specifiche caratteristiche del medium utilizzato.
Due schermate di Penn & Teller’s Smoke and Mirrors. A sinistra, Penn & Teller spiegano come si gioca a Desert Bus. A destra, un fermo immagine da Desert Bus.
Nelle intenzioni degli autori, il gioco aveva un esplicito contenuto politico: secondo Penn Jillette, Desert Bus era una risposta alla campagna moralizzatrice lanciata da Janet Reno contro i videogiochi, strumenti diabolici in grado di corrompere la gioventù; nella sua desolante piattezza, Desert Bus era un preclaro esempio di videogame integerrimo: impossibile accusarlo di istigare all’ultraviolenza e al sesso promiscuo.
Nel 2007 quattro fan di Penn & Teller hanno organizzato “Desert Bus For Hope”, una maratona di gioco trasmessa in streaming con l’obiettivo di raccogliere fondi per l’associazione Child’s Play.
Fotografia dall’edizione 2017 di Desert Bus For Hope.
Riproponendo annualmente l’iniziativa, il gruppo – che si è via via allargato – ha raccolto in un decennio più di 4 milioni di dollari.
A vent’anni di distanza, il videogioco più brutto del mondo è facile da risemantizzare: sulle strade delle nostre città, migliaia di persone sono quotidianamente costrette a giocare a Desert Bus; in cambio di un misero punto, guidano biciclette, scooter e camion per le consegne, assicurandosi che riceviamo a casa la pizza calda e il pacco acquistato on-line (rigorosamente entro un giorno).
Il dettaglio più crudele di Desert Bus è nel contatore del punteggio mostrato all’inizio: è composto da otto zeri e allude a un premio finale che potrebbe arrivare – che so? – a 95 milioni. Solo quando si completa il primo viaggio si scopre che in palio c’è un singolo punto ogni otto ore di lavoro. Cos’è il capitalismo se non quel sistema che ci sventaglia sotto il naso il fatturato annuo di Cristiano Ronaldo (95 milioni l’anno) e ci uccide togliendoci 3 euro quando tardiamo una consegna?
Corso Stati Uniti, Torino – 4 ottobre 2018.
Gorogoa (Annapurna Interactive, 2017) di Jason Roberts è l’anti-Desert Bus: basato su una semplice griglia 2x2 e curatissimo nella grafica (interamente disegnata a mano), il videogioco sfida la ripetitività proponendo una sequenza di puzzle straordinariamente variegati e tutti dalle logiche insolite. Appena si riflette sul lavoro necessario per concepire e realizzare un meccanismo narrativo tanto gradevole alla vista e nella stessa misura fluido e intricato, si intuisce che l’impresa deve essere costata una quantità enorme di tempo e risorse mentali.
L’autore lo conferma nel corso di un’intervista a inventiva, durante la quale spiega di aver impiegato cinque anni per far funzionare l’intera architettura. Il crescendo di soluzioni sorprendenti e sempre originali è vertiginoso, e l’ingrediente segreto di tanto incanto sta nella costanza. Mentre molti videogiochi sono la ripetizione di un identico schema con parametri di difficoltà crescenti (“lanciando un volatile con la fionda, uccidere dei maiali”), Roberts ha costruito un percorso in cui ciascun nuovo passo porta in una direzione radicalmente inedita, senza mai appoggiarsi sulle logiche di quanto proposto fino a quel momento. Come spiega durante l’intervista,
Ho vissuto come una sfida ogni passaggio che mi ha portato verso il completamento del gioco, ma le straordinarie difficoltà che ho dovuto affrontare si sono tradotte nel fatto che oggi il gioco viene percepito come unico e speciale. Se costruisci qualcosa attraverso un procedimento improbabile e inefficiente, il risultato apparirà più magico in modo del tutto spontaneo. (5)
Si tratta dello stesso ingrediente anti-economico espresso da Teller in un’intervista allo Smithsonian magazine:
Un trucco ti ingannerà se richiede più tempo, soldi e pratica di quanto tu (o qualunque altra persona sana di mente) sareste disposti a investire. Io e il mio partner Penn facemmo apparire cinquecento blatte vive da un cappello sulla scrivania di David Letterman. La preparazione ha richiesto settimane. Abbiamo reclutato un entomologo che ci ha procurato scarafaggi lenti e facili da riprendere con la telecamera […] e insegnato a manipolarli senza urlare come ragazzine. Poi abbiamo costruito uno scompartimento segreto in gommapiuma (uno dei pochi materiali su cui non riescono ad aggrapparsi) ed elaborato un metodo ingegnoso per infilarlo in un cappello. Troppo complicato per il valore effettivo del trucco? Per te, forse sì. Ma non per un mago. (6)
La vera magia di Gorogoa, quella da cui è utile farsi infettare, mette in discussione il “valore effettivo” di un videogioco misurato dal Mercato e invita a valutarlo sulla base di una diversa scala di valori.
Tu non ami Gorogoa: ami la sfida e la resistenza di Roberts alle malsane logiche capitalistiche.
1. Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma 2018, pp. 125-6. Traduzione di Valerio Mattioli.
2. Fisher 2018, pp. 126-7. Traduzione di Valerio Mattioli.
3. Fisher 2018, p. 127. Traduzione di Valerio Mattioli.
4. Fisher 2018, p. 149. Traduzione mia.
5. “Jason Roberts interview: Creating Gorogoa required awkwardness and chaos”, inventiva, 5.7.2018. Traduzione mia.
6. Teller, “Teller reveals his secrets”, Smithsonian magazine, marzo 2012 cit. in Mariano Tomatis e Ferdinando Buscema, L’arte di stupire, Milano 2016 (I ed. 2014), pp. 66-7. Traduzione mia.
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