Mompantero è di nuovo in stato d’emergenza. Se lo scorso ottobre era stato il fuoco, ora è la pioggia torrenziale a minacciare frane.
Da qualche tempo, il destino orografico della zona e le vicende della sua comunità mi stanno più a cuore; merito di una scrittrice dimenticata, che nel 1893 dedicò un libro alla montagna locale – l’imponente Rocciamelone, “una montagna che aduna e cela tante tradizioni e tanti arcani come appunto un’arca santa” – e ai panteremesi, i cui misteri sono densi “come l’ammasso di nubi procellose che grava spesso il fianco e avvolge la testa della loro montagna” (p. 8). Scovato negli archivi di un’associazione ufologica, Roc Maol e Mompantero approfondisce il folklore locale in modo sgangherato, mescolando – senza alcun rigore metodologico – evidenze archeologiche e voci leggendarie, etimologie discutibili ed elementi della tradizione esoterica, cronache medievali e allusioni astrologiche, magnetismo e alchimia. L’autrice Matilde Dell’Oro Hermil (1843-1927) chiama all’appello imperatori e contadini, empirici e maghi, professori e ciarlatani, dai frati dell’Abbazia di Novalesa a Dante Alighieri, dalle streghe del Pampalù a Victor Hugo; traccia percorsi che tengono insieme fantasmi e folletti, UFO ante litteram e apparizioni sinistre. Coacervo di stimoli tanto variegati ed eterogenei, il libro sfugge a qualsiasi classificazione: Un volume di storia locale, certo, ma anche molto altro – e proprio la sua “eccedenza” mi ha magneticamente attirato verso le sue pagine, spingendomi a coinvolgere due compagni di Alpinismo Molotov e progettare con loro una ristampa.
Il progetto presenta qualche difficoltà. Nel minestrone esoterico offerto tra le pagine di Roc-Maol e Mompantero, Hermil concede largo spazio alle teorie politiche di Alexandre Saint-Yves d’Alveydre: con l’autore francese, la scrittrice valsusina auspica il ritorno (?) in Italia della Sinarchia, un regime teocratico opposto all’Anarchia basato sull’istituzione di rigide gerarchie e un sistema di controllo tale da impedire qualsiasi tentativo di sovversione. Se l’Europa aderisse a un progetto del genere, si spalancherebbe un portale multidimensionale che, attraverso il Rocciamelone, condurrebbe direttamente al mitico regno di Agharti – una sorta di paradiso in terra. Se a questi deliri si aggiungono alcuni passaggi apertamente razzisti, la lettura risulta a tratti nauseabonda. L’idea di rimettere in circolazione farneticazioni del genere solleva interrogativi importanti. Come si evita che le retoriche di Hermil possano stimolare nostalgia ed emulazione, in un’epoca di revival di organizzazioni neofasciste e in una valle già pesantemente militarizzata?
Il grosso del lavoro consiste nel creare una cornice adeguata, per elaborare la quale ci stiamo ispirando all’enigma di Rennes-le-Château. Le vicende del sacerdote francese, che trovò un tesoro e divenne ricchissimo, furono raccontate per la prima volta da due direzioni opposte, rispettivamente da Pierre Plantard, un esoterista affiliato all’estrema destra, e Gérard De Sède, scrittore surrealista che militò nella Resistenza. Già noto in valle per il libro Settecento anni di rivolte occitane, edito a Susa dalle edizioni Tabor, De Sède può ispirare una riscrittura Molotov delle pagine di Hermil, tale da risemantizzarne i simboli, farne a pezzi il mito e ricostruirne altri, più vitali e gioiosi.
Fotografia di Davide Gastaldo, scattata da località Chiampagna, sopra Trinità Alta di Mompantero.
Come accadde quando Wu Ming 1 si avvicinò alla figura di Felice Benuzzi, superare la diffidenza verso un autore può aprire prospettive inattese. Consultando gli articoli pubblicati da Matilde Dell’Oro Hermil nel 1895, ci si imbatte in due testi piuttosto insoliti: “Vita alpina” e “Vita alpina militare” non sono ciò che ci si potrebbe aspettare da una nobildonna segusina di fine Ottocento. Lungi dal raccontare la vita quotidiana ad alta quota con affettata leziosità, la scrittrice si preoccupa di smontare una visione fiabesca della montagna attraverso racconti durissimi. Al bando ogni lirismo: i montanari
non pensano certo ad ammirare la splendida bellezza, ad interpretare la grandiosa poesia dei loro mondi; li amano come cosa del loro sangue; […] ne subiscono le asprezze, la nudità, la fredda solitudine, le faticose imprese.
Hermil scrive per le amiche con cui prende il tè, scuotendole:
Quando noi si assapora con voluttà quei saporiti formaggi, o si spalma sul pane il burro fresco, leggermente dorato e profumato, non s’immagina certo quanto ha costato ai poveri pastori di cure, di noie e di fatiche.
Per poi condensare l’idea alla base del Capitalismo con una formula fulminante:
Il piacere raffinato dei pochi è spremuto dalla fatica dei più.
Lette oggi, in una delle notti più minacciose dal punto di vista meteorologico, vicende di un secolo fa catturano con efficacia istantanee del nostro tempo:
L’inverno per gli alpigiani è un riposo relativo, illusorio. Il dolce far niente coi suoi sogni e la sua tentatrice mollezza, loro è sconosciuto. Il rigore invernale, la rigidezza della natura, che altrove è solo un’eccezionale passeggiera minaccia, è qui un usuale e salutevole pungolo all’incessante lavoro, alla solerte e minuziosa previdenza. […] Durante l’inverno, quando la neve è più alta e indurita, e non appena si calma la tormenta e tace la bufera, gli uomini vigorosi si tolgono a spalla la slitta e coi grappini agli zoccoli ferrati guadagnano l’alta pendice, per trascinare a valle il fieno e il legname lasciato lassù nella urgenza di altri lavori e anche perché altrimenti è impossibile calarlo per vie ordinarie. Il carico così fatto, che non trascinano, ma a stento trattengono puntandosi forte co’ piedi avanti e il dorso all’indietro, forma uno spaventevole pericolo nelle voltate acute sull’orlo di vertiginose altezze, sui dirupi a picco.
Ma la rigida disciplina imposta dalla montagna non esclude la mitopoiesi:
Quando nevica a larghe falde e per le valli il tempo è un subisso, essi apparecchiano utensili, accumulano concimi, mentre le donne filano la canapa, la lana, l’amore e la loro letteratura parlata.
(Bella l’espressione “filare la letteratura”: richiama la trama, il plot.)
Fiorisce allora quel po’ di vita intellettuale loro possibile; la novella, la leggenda, la contarola che è il loro patrimonio, la storia della valle, la fede dei padri loro, la così detta superstizione, il loro orgoglio del luogo natìo.
Hermil rivela altrettanto disagio di fronte ai racconti bellici edulcorati. Raccontando la dura vita nelle caserme sui rilievi valsusini, la scrittrice distrugge ogni tentativo di mitizzare la figura del militare. Chi protegge il confine occidentale
non è un arcangelo, neppure un’aquila, sibbene un uomo rotto alle fatiche sì, votato al sacrifizio, ma pur sempre un uomo, figlio e suddito di natura; e che pur avendo rinunziato ai liberi e pacifici studi, alle famigliari dolcezze per il servizio militare, non è perciò men soggetto alle necessità della vita, sia pure della più dura e denudata vita; e che ogni virtù di sofferenza, ogni forza di volontà, ogni resistenza, ha un limite come ogni azione di natura.
Ogni retorica va a schiantarsi contro le banali necessità quotidiane di ogni caserma:
Povera mamma Italia, fra tante spinose cure, in tanto incalzare di opere, non puoi certamente rilevare se manchi una pentola e un mestolo nel ricetto a qualcuno dei tuoi ufficiali che guardano di fra le nubi i tuoi passi più importanti. Poiché è così. Scendiamo dalle nubi ora e parliamo un momento sul pratico terreno della vita. Vedetelo ora, l’elegante ufficiale della città, lindo, attillato, apparentemente leggero e spensierato, bel parlatore in salotto o sorridente alle giovani bellezze, trasformato qui in facchino, sentinella, guardia forestale, prigioniero e comandante responsabile, romito e conservatore dei passi, delle strade, del materiale; curante d’ogni cosa pei soldati e privo d’ogni comodo per sé, costretto a farsi da cuoco se ne trova qualche attrezzo e se ebbe tempo e agio anticipatamente a pensare alle provvigioni; in lotta col gelo, coll’umido, colla nebbia, col fumo della stufa, sgangherata, colla scarsezza o lontananza dell’acqua, per cui bisogna talvolta accontentarsi dell’acqua piovana. o della neve sciolta; coi facili guasti alla casetta e alle strade e ai difficili mezzi di riattamento; colla nostalgia della vita, del movimento, della famiglia, degli unici, della civiltà.
L’immagine successiva fa tornare in mente la claustrofobica follia maturata da Jack Torrance:
Tutto intorno è l’abisso, la solitudine, la segregazione completa da tutti i suoi simili, lo spazio che quasi schiaccia in alto, trascina al basso, manca dappresso e sotto ai piedi; la vita vi è come il luogo: aspra, arida, monotona, con culmini acuti e vuoti, incolmabili paurosi; è stagnante sul luogo, è faticosa ad occorrenza, ad ogni mossa per ogni cosa. […] Un anno! Un anno di questa vita solitaria e disastrosa! È troppo, fuggirebbero anche i lupi.
Sorprende che l’autrice non rilevi la stretta continuità tra i progetti sinarchici e le vite di merda da cui “fuggirebbero anche i lupi”. Un’abilità, però, dobbiamo riconoscerle: incapace di renderci appetibile il paradiso nazista di Agarthi, trova riscatto raccontandone con esemplare efficacia i risvolti infernali.
I passaggi di Matilde Dell’Oro Hermil sono tratti da “Vita alpina” in La vita italiana, N. 13, 10.5.1895, pp. 274-6 e “Vita alpina militare” in La vita italiana, N. 17, 10.7.1895, pp. 458-61.
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