Minneapolis, 29 settembre 1915. Migliaia di persone sono radunate davanti alla sede del giornale locale. C’è un uomo appeso per i piedi alla cima di un palazzo. Si dimena e ha gli occhi fuori dalle orbite. Respira poco e male, stretto com’è in una camicia di forza. Lo strano spettacolo è una sfiancante lotta tra un individuo e ciò che lo imprigiona, ma è l’uomo a uscirne vittorioso. Egli allarga le braccia e prende un profondo respiro, scagliando lontano l’atroce morsa di stoffa. A terra esplode l’applauso. Anche questa volta Harry Houdini è libero (vedi il filmato della fuga).
I biografi lo definiranno “il primo supereroe d’America” (1) , interrogandosi sulle ragioni del suo successo. Perché si restava ipnotizzati a guardarlo? La risposta è che Houdini non fu un mago come gli altri: le sue fughe fecero di lui un simbolo. Gli spettatori proiettavano sulla sua camicia di forza ciò che li faceva sentire oppressi. Come Cristo sulla croce, egli prendeva su di sé quei carichi, “indossandoli” e mettendo a rischio la propria vita. Giocando con emozioni così primarie, ogni sua vittoria scatenava applausi di sollievo che nessun coniglio dal cappello avrebbe mai suscitato. La sofisticata relazione tra il mago e il suo pubblico fu analizzata a fondo da Bernard C. Meyer, psicanalista che dedicò un libro ai risvolti simbolici delle fughe di Houdini; (2) una lettura colta e interessante, cui sfugge un dettaglio cruciale: cogliere il simbolismo era un lusso che non tutti potevano permettersi.
Se le strade erano piene di spettatori pronti ad apprezzare il gioco metaforico delle fughe di Houdini, un’intera folla di esclusi si sarebbe volentieri limitata a celebrarne il senso letterale: erano i cosiddetti “matti”, uomini senza colpa che vivevano dietro le sbarre, condannati a soffocare dentro morse di stoffa. Costoro conoscevano sulla propria pelle i tormenti che il mago proponeva a teatro: dalle strisce di cuoio dei lettini di contenzione ai ceppi di metallo, dalle catene alle corde ai polsi. Per chi viveva in un manicomio, la camicia di forza di Houdini non era il simbolo di qualcos’altro; ogni fuga del mago era la rappresentazione “letterale” dell’unica cosa che avrebbe restituito loro la dignità. Negli ospedali psichiatrici, chi tentava di imitarne le gesta – i cosiddetti “laceratori” – non riceveva applausi ma dure punizioni; per contenere costoro, la rivista Mental Hospitals suggeriva l’acquisto di un nuovo capo più resistente (a scelta tra due “piacevoli modelli”).
Rivolgendosi a chi viveva in libertà, le magie di Houdini nacquero e morirono sul piano simbolico, senza dare impulso ad alcuna vera liberazione; in Italia, tra gli anni Sessanta e Settanta, fu una sollevazione di medici e amministratori a portare l’escapologia dal piano illusionistico a quello concreto, realizzando nella pratica ciò che il mago si era limitato a scimmiottare.
Era il 1961 quando Franco Basaglia, entrando come neo-direttore nel manicomio di Gorizia, fu investito da un insopportabile odore di “merda” e “morte”. Per illustrare l’impressione che ebbe di fronte a un paziente, lo psichiatra citò la descrizione che – nel 1733 – Jonathan Swift aveva dato di un “malinconico, selvatico, sporco e sordido, che fruga nelle proprie feci e sguazza nella propria urina”, la cui parte migliore del cibo “è costituita dai suoi stessi escrementi, le cui esalazioni lo avvolgono, tanto che alla fine egli le riassorbe.” Il suo viso “ha un colore giallo sporco che si accorda perfettamente con quello dei suoi alimenti, come certi insetti che, essendo nati e cresciuti tra gli escrementi, dagli escrementi prendono il colore e l’odore.” (3)
Come tutti gli ospedali psichiatrici dell’epoca, il luogo era un lager i cui pazienti erano lasciati marcire in condizioni disumane. Insieme ad altri colleghi, Basaglia ispirò la formazione di un movimento di psichiatria radicale che non amava le mezze misure: il manicomio non andava riformato ma distrutto; esso, infatti, non serviva a curare, essendo piuttosto
una fabbrica in cui gli scarti del proletariato urbano e contadino vengono convertiti, attraverso un opportuno trattamento, in pazzi ufficialmente riconosciuti, etichettati, offerti con garanzia al consumo dei sani. Questi ne [traggono] la conferma della propria diversità e superiorità, alimentando dei più vili e feroci pregiudizi una forma di razzismo che arriva a separare e a opporre gli appartenenti alla stessa classe di sfruttati. (4)
Franco Basaglia (1924-1980).
Senza chiedere alcuna autorizzazione, gli psichiatri radicali fecero sparire catene e camicie di forza, aprirono i dormitori e liberarono i degenti. Per mettere in discussione il “magico” carisma che faceva dello psichiatra una figura di potere, Basaglia scandalizzò molti colleghi togliendosi il camice e confondendosi con i pazienti. Arrivando a Gorizia, era difficile
per il nuovo arrivato [...] stabilire con precisione chi [fosse] il medico e chi il paziente. È forse questa una misura del successo dei metodi consapevolmente usati per livellare il clima autoritario tipico della maggioranza degli ospedali. Se si rimuovono i simboli della sua posizione, diventa davvero difficile per il medico riprendere, e conservare, un controllo autoritario “sul” paziente. (5)
Confondendo agli occhi dell’osservatore il confine tra normalità e follia, Basaglia concretizzò il gioco illusionistico al cuore de Il gabinetto del dottor Caligari (1920).
Fotografia da Il gabinetto del dottor Caligari (1920).
Nel film, il perfido mago Caligari usa l’ipnosi per uccidere. Scoperto e catturato, l’illusionista viene chiuso in un manicomio criminale, stretto in una camicia di forza. Quando la vicenda sembra conclusa, un colpo di scena mette in discussione la realtà di quanto si è visto fino ad allora. Il narratore si rivela un matto che si è immaginato tutto: Caligari non sarebbe altri che il direttore dell’ospedale psichiatrico in cui il narratore-matto è rinchiuso.
Attraverso un montaggio allucinato dalle geometrie zigzaganti, il film di Robert Wiene anticipava nell’immaginario la rivoluzione basagliana, lasciando aperto il finale e impedendo allo spettatore di tracciare una linea netta che distinguesse il direttore del manicomio dai suoi pazienti.
Non limitandosi a credere nell’impossibile ma operando giorno per giorno per realizzarlo, nel 1978 Basaglia concretizzò il suo folle sogno e con la Legge 180 l’Italia divenne il primo (e unico) paese al mondo ad abolire i manicomi.
Restarono in piedi solo i sei ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) che erano stati istituiti dal codice penale fascista: gironi danteschi che univano alla logica del manicomio quella del carcere.
L’Opg di Napoli fu poi chiuso nel 2008 e i suoi locali abbandonati. In vista della legge che li avrebbe aboliti tutti, il 2 marzo 2015 i ragazzi del Collettivo Autorganizzato Universitario occuparono l’ex-manicomio per capovolgerne la prospettiva: il gesto segnò l’inizio di “Je so’ pazzo”, un progetto che si proponeva come logica prosecuzione della rivoluzione basagliana.
Tramite il coinvolgimento di associazioni locali e grazie al contributo di centinaia di volontari, da più di due anni l’ex-Opg offre a titolo gratuito sportelli medici, legali, servizi di doposcuola, lezioni di italiano per stranieri, attività sportive (dal calcio alla boxe, dall’arrampicata al kung-fu), laboratori artistici, musicali, teatrali, organizza campagne politiche (a sostegno dell’accoglienza dei migranti e contro il lavoro nero) e iniziative di solidarietà (una delle quali per il terremoto in centro Italia). In parallelo conduce un attento lavoro di recupero e ristrutturazione dei locali, un’operazione che ha lasciato immutati i sinistri spazi dove gli ospiti dell’Opg erano reclusi:
Celle di pochi metri quadrati, chiuse da pesanti doppie porte blindate, letti di contenzione saldati al pavimento, sbarre ad ogni corridoio, pile di squallide divise uniformi marroni e scarpe accatastate come in un campo di concentramento, di quelli tristemente noti nella storia del Novecento. (6)
Dettagli dalle stanze dell’ex-Opg di Napoli. Fotografie di Mariano Tomatis, 27 dicembre 2016.
Le anguste stanze dell’orrore sono oggi un museo che denuncia la coercizione spietata del potere contro i deboli.
Il murales di Blu, che dal marzo 2016 decora due facciate dell’ex-Opg, coglie alla perfezione i due ingredienti alla base della magia del progetto: le dimensioni ciclopiche e la ferma determinazione nello spezzare tutte le catene – letterali e simboliche.
Visitando l’ex-Opg il 27 dicembre 2016 ne sono rimasto abbagliato: “Je so’ pazzo” sta trasformando un luogo di morte in un laboratorio da cui si sprigionano potenti energie vitali. Agli occhi di un mago, “trasmutazioni” del genere sono molto più interessanti di qualunque fumisteria alchemica. Esponendosi alle sue radiazioni, il contagio è immediato: se ne esce ricaricati, avendo constatato di persona la concretezza delle proposte e la radicalità nell’opporsi a ogni forma di oppressione, autorità e reclusione attraverso spazi di condivisione, socialità e libertà.
La palestra popolare e il teatro ricavati nei locali dell’ex-Opg di Napoli. Fotografie di Mariano Tomatis, 27 dicembre 2016.
Frequentando con regolarità il mondo degli illusionisti, sono spesso deluso dall’uso che fanno del concetto di “follia”: tale categoria serve quasi sempre a giustificare il pressapochismo e la mancanza di compattezza stilistica dei loro spettacoli; la regola empirica è semplice: se definisci “pazzo, pazzo, pazzo” il tuo numero di magia, vuol dire che fa cagare. Pochi raggiungono le vette psichiatriche di Yann Frisch, ma al prestigiatore che mi chiedesse come si può stupire attraverso la follia prescriverei una visita all’ex-Opg di Napoli. L’ingrediente segreto del collettivo che anima “Je so’ pazzo” si ispira alla magnifica esortazione di René Char:
Compagni patetici che a pena sussurrate, andate con la lampada spenta e restituite i gioielli. Un nuovo mistero canta nelle vostre ossa. Sviluppate la vostra legittima stranezza. (7)
Ad animare il progetto napoletano è la follia di chi restituisce i gioielli – e per questo viene giudicato pazzo: adottando valori come la gratuità e la condivisione, “Je so’ pazzo” sfida la logica comune, dimostra che un mondo diverso è possibile e rivendica con orgoglio la legittimità a sviluppare la stranezza della Rivoluzione. Assumendo come punto di vista privilegiato la prospettiva della follia, il collettivo spiega che
in un mondo dove la normalità è fatta da disoccupazione, precarietà, discriminazioni di ogni genere e grado, definirsi pazzi e osare addirittura occupare e liberare un ex manicomio giudiziario è l’occasione ideale per iniziare concretamente una lotta all’interno di una città così difficile come Napoli.
Per lasciarsi incantare dalla sua magia, quello alle porte è il weekend perfetto: da giovedì 7 a domenica 10 settembre “Je so’ pazzo” propone il suo terzo Festival (visita il sito). Nel corso di quattro giorni l’ex-Opg ospiterà dibattiti, workshop, cene, mostre, stand, esibizioni teatrali e concerti: intitolato “Potere al popolo”, il Festival sarà l’occasione per condividere le meraviglie realizzate da una comunità nata dal basso in una prospettiva radicalmente antieconomica, senza l’appoggio di sponsor o padrini politici.
“D’altra parte,” scrive il collettivo “quale luogo migliore di un manicomio per sognare e fare cose da pazzi?”
1. Larry Sloman e Bill Kalush, The Secret Life of Houdini: The Making of America’s First Superhero, 2006.
2. Bernard C. Meyer, Houdini, una mente in catene, SIAD, Milano 1977.
3. Franco Basaglia e Franca Ongaro, Morire di classe, Einaudi, Torino 1969.
4. Associazione per la lotta contro le malattie mentali, La fabbrica della follia, Einaudi, Torino 1971.
5. Dennie Lynn Briggs, “Social Psychiatry in Great Britain” in American Journal of Nursing, n. 59, vol. 2, 1959, p. 218. La descrizione si riferisce all’ospedale di Dingleton.
7. René Char, Fureur et mystère, 1948. Michel Foucault la cita nella prefazione di Storia della follia nell’età classica (1960).
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