Nel 1784, quando li accusarono di aver esagerato nel prendere in giro Mesmer, i registi della commedia “I dottori moderni” si difesero con tre parole latine: la loro intenzione era
ludere, non laedere (1)
ovvero “prendersi gioco del medico tedesco senza lederne la reputazione.” Furono costretti a usare il latino: in francese il gioco di parole tra ludus (gioco) e laedere (ledere, lesionare) non funzionava.
Hanno osato di più i curatori di “Storie di giocattoli. Dal Settecento a Barbie”. Organizzata a Napoli presso il Convento di San Domenico Maggiore, la mostra celebra il gioco senza negargli una forza politica: un ludus che non si fa scrupoli di essere lesivo del potere cieco, dell’intolleranza e della discriminazione.
Il mio biglietto.
Come spiega la sua presentazione, non si tratta di un asettico e neutrale itinerario museale, ma di
un percorso gioioso nella magia fuori del tempo della civiltà dei giocattoli, senza perdere di vista il contributo alla tolleranza, al superamento di ogni discriminazione di genere e di razza, che la pratica del gioco testimonia nel corso dei secoli e, ancora di più, può incentivare oggi. [...] Perché, al di là di estetiche di maniera per famiglie benestanti, emerga con forza la carica di bellezza, di gioia, di tolleranza che i giocattoli condensano e alimentano.
“Storie di giocattoli” mi ha conquistato per la sua capacità di tenere insieme leggerezza e impegno, spensieratezza e conflitto, incoraggiando uno sguardo infantile e severo al contempo.
Consapevole della responsabilità legata al suo ruolo di divulgatore, il curatore Vincenzo Capuano scrive sul suo catalogo (scaricabile dal sito del comune di Napoli e dalla Biblioteca Magica del Popolo) che
i giocattoli e i giochi sono efficacissimi canali d’interpretazione della vicenda umana e ne attraversano tutti gli aspetti: antropologici ed economici, sociologici e artistici. E la loro storia è la più politica ed etica delle storie perché è storia di valori (e di disvalori). (2)
Ecco qualche ricordo sparso da una mostra stuporosa a più livelli.
La Maschietta della serie “bambole da boudoir” (Ditta LENCI, Torino) era troppo emancipata: i vestiti maschili e la sigaretta la resero insopportabile agli occhi del regime fascista. Mussolini ne vietò la produzione, incontrando però la disubbidienza della LENCI. La modella cui si ispirarono per il viso fu certamente la mia amica Loredana Lipperini.
Bambola ottocentesca in ceramica opaca, rappresentava una fatina che dispensava vaticini: versando una moneta si poteva prelevare un breve oracolo scritto su un striscia di carta nascosta sotto la gonna.
Alcune bambole portano sfiga. Nel 1926, appena fu messo in produzione il suo bambolotto, Rodolfo Valentino morì e la LENCI lo ritirò dal commercio. La coincidenza fece nascere una “leggenda nera” intorno all’articolo, che da allora fu considerato porta-jella. La sfortuna lo trasformò anche nel pezzo più raro prodotto dalla casa torinese.
Costretto a indossare l’abito dei balilla, Pinocchio non è contento; lo testimonia una scritta sotto la base del burattino di legno:
Povero Pinocchio!
Magia o scienza? Vero prestigio o elaborato trucco? Nell’Ottocento le scatole che insegnavano diventare illusionisti esprimevano la stessa ambivalenza. Sotto la grande intestazione PRESTIDIGITAZIONE presentavano una scritta più piccola che capovolgeva la prospettiva: FISICA. Ieri come oggi, incanto e disincanto sono due facce della stessa moneta.
E’ ispirata a Michael Jackson e ai suoi inconfondibili lineamenti questa marionetta di metà Ottocento.
“Gay Bob” fu il primo bambolotto omosessuale. Prodotto nel 1974, era venduto in una confezione che incoraggiava il “coming out” e riportava perle del tipo
Portami in ufficio: il tuo capo vorrà giocare con me.
Bob è stato scelto come “giocattolo simbolo” della mostra.
Avendo sempre creduto che l’espressione “bambole di LENCI” si riferisse al materiale con cui sono realizzate, ho appreso con sorpresa che LENCI è il nome della ditta torinese che le realizzava; l’espressione derivava dall’acronimo latino Ludus Est Noster Constanter Industria: “il gioco è costantemente il nostro impegno.”
Nella società contemporanea, che tutto misura in termini di profitto e produttività, lo stesso programma suona eversivo; alludendo alla forza del Gioco di mettere in discussione le regole infernali del Capitalismo, Gianni Rodari scriveva che
la scelta o l’opportunità di vivere la vita come gioco apre la strada a una esistenza felice, che è propria di chi (poeti, artisti, scienziati, inventori) compie un lavoro che fonde insieme creatività scientifica o espressiva e creatività ludica.
Lo spiega benissimo anche Capuano, concludendo che
Da noi il gioco è play, gioco libero, più che game, gioco di regole, per usare la distinzione che ci offre la lingua inglese. Da noi è nonsenso, ma guai a pensare che sia privo di senso. Ce l’ha insegnato Basaglia che la follia è un diverso stato di coscienza, ma ce lo hanno mostrato anche Fortunello, Bonaventura e soprattutto Pinocchio e Pulcinella e, dulcis in fundo, l’amatissimo Totò. Tutti, ma proprio tutti sono diventati anche balocchi a dimostrazione che a volte anche ciò che è popolare può sfiorare il sublime.
1. Notizie del mondo, 1.1.1785.
2. Vincenzo Capuano, Storie di giocattoli, Prismi, Napoli 2016.
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