Si è concluso il Torino Mind Festival, quattro giorni di incontri, conferenze e spettacoli intorno al mentalismo, arte teatrale che mette al centro i poteri della mente e cerca di violarne i limiti. Con grande rammarico ho potuto frequentarne solo poche sessioni, dunque questo mio post non è da leggersi come una recensione dell’evento: raccoglierò qui una serie di impressioni sparse per fornire un (seppur limitato) punto di vista sullo stato dell’arte di una disciplina tanto affascinante quanto antica.
Nel complesso ho molto apprezzato il lavoro di Fabio Vangelista, alle cui spalle – in ombra ma non meno determinanti – hanno svolto un prezioso lavoro di coordinamento Beppe Loverso e Bianca Fodor, a loro volta sostenuti da un nutrito e affiatato staff.
Dal mio punto di vista di scrittore, sono rimasto piuttosto colpito dal “diario del festival”, un libretto patinato con schede biografiche di tutti gli artisti coinvolti, lo spazio per prendere appunti durante le conferenze, la spiegazione di alcuni esperimenti di mentalismo ma soprattutto un’area riservata agli autografi di conferenzieri e performer; oltre a promuovere un contatto personale con i diversi artisti, un oggetto del genere è il souvenir perfetto da conservare alla fine dell’evento. Offerto ai partecipanti con un costo extra rispetto al biglietto di ingresso, tra tutti i gadget esposti è parso ai miei feticistici occhi un “must” assoluto.
Mariano Tomatis e Francesco Busani
In controtendenza rispetto ai congressi internazionali, nessuna altisonante cerimonia ha segnato l’apertura del Festival: giovedì 26 novembre ho avuto l’onore di dare il via ai lavori pur indossando un semplice “pass” da partecipante, puntando direttamente il riflettore sull’oggetto della nostra comune passione – il mentalismo, i suoi retroscena teorici e le sue applicazioni pratiche. Distogliendo l’attenzione dai vari artisti coinvolti, che solo nel corso delle successive sessioni avrebbero trovato la propria mezz’ora di celebrità nelle numerose conferenze presentate, l’evento si è aperto con “Book Experience”, incontro dedicato alla presentazione degli ultimi libri sul tema. Io e Francesco Busani abbiamo presentato reciprocamente i rispettivi libri Magia a tu per tu (2015) e Te lo leggo nella mente (2013), due lavori che – nonostante la loro difficile collocazione in categorie ben definite (o forse grazie a questa) – hanno incontrato un successo di vendite e critica che ha superato le più rosee aspettative (ma sulla natura profondamente sovversiva del libro di Francesco ho già scritto qui.)
Le dimensioni contenute degli spazi dell’hotel Atlantic di Borgaro Torinese (TO) hanno favorito un clima piacevole e conviviale, annullando le distanze tra professionisti e amatori e offrendo a tutti un ambiente dove improvvisare esibizioni, isolarsi per scambiarsi informazioni più scottanti, intavolare conversazioni e praticare il libero pettegolezzo. Lo staff ha fatto un ottimo lavoro nel governare i diversi eventi, fornire indicazioni e mantenere un atteggiamento sorridente e discreto, esplicitamente rivolto a mettere a proprio agio i partecipanti e incoraggiare incontri e contaminazioni. La relazione “orizzontale” che si crea tra tutti è la dimensione più preziosa nell’ambito di eventi di questo tipo, più ancora della più ovvia relazione “verticale” che si instaura tra docente e allievi nei workshop e nelle conferenze, offerte ai mentalisti dai colleghi più esperti.
Se in ogni congresso medico le case farmaceutiche propongono i propri prodotti in margine alle sale dove si tengono le relazioni, durante gli incontri per illusionisti sono le “case magiche” a offrire oggetti truccati, manuali e DVD didattici. L’ampio spazio dedicato alla vendita dei prodotti per mentalisti aveva un respiro internazionale. Personalmente sono stato colpito dalla natura iperreale (ed esplicitamente iettatoria) di alcuni strumenti (“prop” in gergo tecnico) attraverso cui produrre effetti sorprendenti in chiave occulta/esoterica; impressionanti il perfetto kit per rituali voodoo di fine Ottocento (realizzato da Max Vellucci) e l’urna cineraria (!) su cui materializzare con il pensiero il nome del defunto (proposta da un illusionista svedese, fratello di Arkadia).
Consapevole di non poter essere esaustivo nel riportare i nomi dei molti colleghi cui ho stretto la mano per la prima volta – spesso dopo lunghi scambi di email – mi limito a segnalarne due. Sono stato molto felice di vedere finalmente in azione Luca Volpe, la cui autoironia – unita a un’ottima capacità di gestione della scena e a un’empatia palpabile – mi hanno conquistato. Incentrato sui social network, il numero che ha presentato durante il galà di sabato sera rivela il lodevole sforzo di condurre il mentalismo al di là del “già visto”: il trucco è quello di coinvolgere elementi della vita quotidiana come Facebook, costruendovi routine originali e di immediata accessibilità da parte del pubblico. Osservandolo mi sono chiesto quanti mentalisti si siano resi conto della possibilità di svecchiare effetti magici come i “Living & Dead Test” (diffusi durante le due Guerre Mondiali, quando scoprire lo stato in vita di un congiunto sui campi di battaglia era materia scottante) facendo appello alle moderne piattaforme social: quando i mentalisti lo intuiranno, invece di distinguere i vivi dai morti inizieranno a riconoscere i “like” dai pollici rivolti verso il basso – impressi dietro foto, tweet o post.
Jay Di Biase mi ha fatto dono dell’originalissima routine “Rock, Paper, Lies”, appena pubblicata in DVD da Titanas Magic Productions. Per far venire l’acquolina in bocca agli appassionati di magia e matematica è sufficiente riportare tre dettagli alla base della sua idea: (1) l’effetto mentalistico si esegue a mani nude, senza l’ausilio di alcun oggetto; (2) è la logica ma inaspettata evoluzione di uno splendido principio concepito nell’ambito degli enigmi e giochi matematici e (3) nasce da un’attenta lettura dei libri di Raymond Smullyan, uno dei più brillanti intellettuali statunitensi, in grado di contaminare giochi di prestigio, paradossi logici e twist sorpredenti.
Tra i vecchi amici ritrovati, è stato un piacere trascorrere un po’ di tempo – tra gli altri – con Wolf Waldbauer, Carlo Faggi, Fabrizio Industria, Emanuele Spina, Simone Ravenda e Deniel Monti.
Il contest del giovedì sera è stato vinto da uno straripante Vanni De Luca, la cui performance ha toccato in me corde emotive profonde. Da scrittore, la mia soddisfazione più grande è quella di assistere a qualcosa di cui le mie pagine sono state una remota ispirazione. Sulle pagine del mio Te lo leggo nella mente racconto la storia dimenticata di Harry Kahne (1894-1955). All’inizio del Novecento i giornali non esitavano a chiamarlo “sensazionale mentalista” e “la più grande meraviglia mentale della storia”. All’inizio dei suoi spettacoli, spiegava che le persone normali usano solo il 10% del cervello e che con un po’ di allenamento si può arrivare a utilizzarlo completamente. Con queste premesse, dimostrava di saper scrivere cinque frasi diverse contemporaneamente su altrettante lavagne, tenendo i gessetti con le mani, i piedi e la bocca; memorizzare in pochi secondi venti parole associate ad altrettanti numeri; compilare a richiesta quadrati magici basati su numeri scelti dal pubblico.
Due anni fa l’attuale campione italiano di mentalismo incontra Harry Kahne tra le mie pagine e oggi decide di riproporne le meraviglie a un secolo di distanza. Sul palco del Teatro Atlantic Vanni De Luca ha risolto un cubo di Rubik, compilato un quadrato magico sulla base di una radice scelta da uno spettatore e recitato una lunga sequenza di terzine tratte dalla Divina Commedia a partire da un verso scelto a caso.
Vanni De Luca
Riportare nell’ambito del mentalismo una performance praticamente dimenticata, restituirla alla vita in chiave italiana (con la scelta di Dante) e proporla di fronte a una giuria è un gesto coraggioso, che sfida le convenzioni e costringe ad allargare lo sguardo all’intero Novecento, quando le “meraviglie multiple” di Harry Kahne erano esibizioni di mentalismo a tutti gli effetti. L’esperimento presentato non consente di prendere alcuna scorciatoia: Vanni ha dovuto imparare a memoria la Divina Commedia verso per verso, conquistando un piedistallo su cui nessun collega potrà facilmente raggiungerlo; in un’arte che mette al centro l’inganno e l’approccio laterale, figure come quella dell’attuale campione di mentalismo sono particolarmente perturbanti, fonte di fascino – per le capacità che la mente umana è in grado di raggiungere senza alcun artifizio – ma anche di frustrazione, per la strada troppo lunga che separa tutti gli altri artisti da quel tipo di performance; l’irruzione di un numero teatrale “vero” in un contesto costruito in gran parte sull’illusione non può non generare scintille nella comunità di appassionati. Una menzione particolare va a Max Vellucci, la cui presentazione del contest è stato un valore aggiunto davvero notevole.
I tedeschi chiamano schadenfreude il piacere provocato dalla sfortuna altrui. Evitando il paventato “effetto Agente Smith” Francesco Tesei ha riconfermato la sua capacità di sperimentare in direzioni nuove e sorprendenti, proponendo quello che si è rivelato un drammatico esperimento di schadenfreude collettiva. Francesco ha chiuso il gran galà del sabato sera con un numero mai eseguito in precedenza, la cui difficoltà l’ha completamente sopraffatto. Dopo un brutto errore, il mentalista ha tentato invano di chiudere l’esibizione con una rivelazione che si è dimostrata altrettanto sbagliata. In una sala traboccante di colleghi aspiranti mentalisti, osservare il “numero uno” in Italia in difficoltà a gestire una serie di imbarazzanti errori ha prodotto un fiume sotterraneo di indicibile e sofferta schadenfreude. “Indicibile” perché chi oserebbe ammettere un cinismo sadico del genere, nei confronti di un artista cui poco prima si è chiesto un autografo? A tale sentimento di segreto godimento si è naturalmente mescolata una spontanea e profonda empatia: impossibile non vedere se stessi su quel palco e impedire ai neuroni specchio di scaricare impulsi di autentico terrore. La performance si è “risolta” su un piano ulteriormente sfasato: attraverso una delle rivelazioni più memorabili nella storia del mentalismo italiano, un buon centinaio di mentalisti – e un pubblico altrettanto numeroso in sala – hanno dovuto ammettere di essersi lasciati ingannare dalla perfetta recitazione di Francesco, che in realtà aveva previsto (e dunque messo in scena ad arte) ogni errore, affidandolo a un messaggio chiuso in una busta. È stato un vero spasso assistere agli scambi successivi, dove tra colleghi ci si è confrontati molto sull’empatia provata per Tesei – e poco sulla più intima e imbarazzante schadenfreude, così efficacemente invocata in modo obliquo. Se da un artista italiano possiamo aspettarci future scelte di radicale sperimentazione, quello è indubitabilmente Tesei.
Dal parziale punto di vista attraverso cui ho potuto osservare la manifestazione, avendola ampiamente apprezzata, mi sento autorizzato a segnalare solo due potenziali margini di miglioramento. La prima è quella di incoraggiare l’adesione da parte di un pubblico femminile, coinvolgendo – tra conferenzier* e partecipanti – illusioniste donna. Se da un lato (e l’ho apprezzato) negli show non si sono viste esibizioni di virilità esasperate, la mancanza di contributi attivi da parte di figure femminili si è fatta sentire. Nessun workshop o conferenza sono stati tenuti da una donna, e le partecipanti in sala si contavano sulle dita di una mano; tra costoro seguirò con attenzione studi e performance di Inés la maga, illusionista della TV spagnola interessata ad approfondire, con un approccio rigorosamente accademico, le radici italiane della magia tra Sette- e Ottocento; non mi stupirebbe assistere – in una prossima edizione del Festival – a un suo contributo sui rapporti tra gli show dei professeurs de physique di tre secoli fa e il mentalismo moderno. La partecipazione di figure femminili in manifestazioni partecipate in larga maggioranza da maschi consentirebbe anche di allargare lo spettro delle “possibilità” percepite nell’ambito del mentalismo e delle sue narrative: mettendo in discussione il lato “macho” della disciplina, quali alternative restano a noi uomini? Risposte femminili a una domanda del genere urgono come non mai. Non c’è d’altronde da aspettarsi che il coinvolgimento di nuove artiste in manifestazioni di questo tipo sia in carico solo a chi le organizza: lo stesso può essere incoraggiato da un lavoro di costante autocritica “dal basso” da parte di noi maschi, per stanare quei retrogradi automatismi sessisti di cui riempiamo le nostre performance per strappare facili risate.
L’altro elemento delicato di queste manifestazioni è il notevole impegno economico richiesto ai partecipanti. Se si tengono ferme le spese per la gestione degli spazi e dei contratti con gli artisti, spesso le cifre richieste sono piuttosto ingenti, e – come capita quando si va in crociera – difficili da prevedere in anticipo, viste le numerose occasioni di spese extra offerte in loco. Se come illusionisti siamo impegnati a concepire l’impossibile per realizzarlo, questo punto merita un’attenzione enorme: studiare strategie per minimizzare i costi e venire incontro ai partecipanti meno abbienti è un valore assoluto, ma richiede di mettere in discussione assiomi che vengono considerati dati e immutabili.
Farlo imporrebbe l’apertura di tavoli dove discutere apertamente di budget e contratti, magari tramite questionari ai potenziali partecipanti con domande esplicite:
- Coinvolgere Derren Brown aumenterà di 30 euro il costo del biglietto. Sei dispost* a sobbarcarti la differenza?
- Ogni stella dell’albergo che ospiterà l’evento ti costerà 30 euro. Quante stelle sei dispost* a sobbarcarti?
- Il diario dell’evento in bianco e nero costerà 3 euro; patinato e a colori ne costerà 15. Quale dei due potrai permetterti?
- La grafica dei fondali aumenterà di 25 euro il costo del biglietto. Sei dispost* a sobbarcarti la differenza?
Sarebbero sufficienti poche statistiche per profilare correttamente il partecipante-tipo di un festival del genere, consentendo di creare un evento aperto al maggior numero di persone e venendo incontro alle loro esigenze autocertificate. L’evento potrebbe, inoltre, essere legato al previo raggiungimento di una quota minima di partecipanti, e da quel numero in poi il costo d’ingresso dovrebbe diminuire sulla base delle adesioni ricevute; in una logica “più partecipanti = costo inferiore” tutti cercherebbero di estendere l’invito ad amici e colleghi appassionati. Il Torino Mind Festival, che già si è dimostrato capace di andare controcorrente e mirare a un clima di famiglia favorevole a riflessioni su questi temi, può diventare una palestra ideale per sperimentare nuove forme di autofinanziamento. Sarebbe un’ottima dimostrazione della nostra capacità di trascendere l’illusorietà tipica del mentalismo e creare un ambiente che all’esclusività preferisce una (sempre più preziosa e urgente) “inclusività”.
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