Per chi se le fosse perse, ecco tre recensioni del miglior libro sulla Sindone mai pubblicato: sono apparse sui principali quotidiani italiani a firma di Paolo Mieli, Sergio Luzzatto e Adriano Prosperi. Il libro non si trova nel bookshop ufficiale a disposizione dei pellegrini in visita a Torino; eppure si tratta del lavoro più documentato e approfondito a oggi disponibile: una lettura che mi ha letteralmente incantato per erudizione, ampiezza e metodo.
Quella della Sindone è la storia di una incredibile leggenda, all’inizio osteggiata dalla Chiesa stessa e poi fatta passare per «autentica» sulla base di ricostruzioni che si distinguevano per mancanza di rigore e assoluta assenza di scientificità. Nel 1543 Giovanni Calvino ironizzò sulla presenza nelle chiese cattoliche di una grande quantità di reliquie, tra cui numerosi sudari, ognuno dei quali si riteneva avesse avvolto 15 secoli prima il corpo di Gesù Cristo. Già qualche secolo prima, in un poema sulla distruzione di Roma risalente alla prima metà del XIII secolo, se ne menzionava uno, di questi sudari, che si sarebbe trovato nella basilica romana di San Pietro fino a che, durante il sacco della città (23 agosto 846), sarebbe stato rubato dal re saraceno Fierabras e portato in Spagna. Lì lo avrebbe recuperato Carlo Magno per donarlo all’abbazia reale di Saint-Corneille a Compiègne: ma il telo sarebbe andato disperso ai tempi della Rivoluzione francese.
Sempre nel XIII secolo ne comparve un altro nell’abbazia cistercense di Cadouin, allorché Simon IV de Montfort, capo della crociata contro gli Albigesi, nel 1214 lo espose ai pellegrini al fine di procacciarsi, con le loro elemosine, una cospicua rendita. Nel 1643 questa reliquia fu dichiarata «autentica» dal vescovo Jean de Lingendes. E autentica fu considerata per 290 anni. Finché nel 1933, sulla base di studi accurati, si scoprì che quel panno di lino non soltanto era di epoca medievale, ma addirittura di origine egiziana e islamica. Un terzo «lenzuolo di Cristo» fu quello degli agostiniani di Carcassonne, i quali, nel 1402, furono trascinati in giudizio dai cistercensi di Cadouin che ritenevano si trattasse di una parte sottratta a quello, il «loro», di cui si è detto poc’anzi. Più complicata la vicenda della Santa cuffia, che avrebbe coperto la testa di Gesù deposto dalla croce, donata da Pipino il breve (o da Carlo Magno) al vescovo Aymat di Cahors, il quale, a testarne l’autenticità, l’avrebbe posta sulla testa di un morto con l’effetto di resuscitarlo immediatamente. Anche la Santa cuffia sopravvisse alla Rivoluzione francese, ma studi successivi dimostrarono inequivocabilmente che era stata cucita non prima dell’XI secolo. Ci fu poi il presunto sudario che – diceva la leggenda – era stato posto sul volto di Gesù dopo la crocefissione e veniva conservato a Magonza. Quella stessa leggenda raccontava che sarebbe stato donato dalla nobile Cunegonda a santa Bilide (peccato però che Cunegonda fosse nata nel 734, quanto Bilide era già morta).
Il punto di partenza di questa storia, scrive Andrea Nicolotti nello straordinario Sindone. Storia e leggende di una reliquia controversa, edito da Einaudi, è nell’anno 1204, allorché una crociata, la quarta, partita per liberare Gerusalemme, «fece sosta» a Costantinopoli e razziò la capitale dell’impero bizantino. Da quel momento l’Europa fu invasa da reliquie, pezzi di sindone e di sudario. Robert de Clari, un cavaliere piccardo che aveva preso parte a quella crociata, scrisse che nella chiesa delle Blacherne «si trovava la stoffa in cui nostro Signore fu avvolto che ciascun venerdì si drizzava tutta dritta». Nicolotti dimostra quanto de Clari fosse un testimone inattendibile: si era spinto «ad accettare la verosimiglianza delle reliquie più strane», fino a prendere addirittura per «buone» le lacrime della Madonna ancora visibili sulla tavola di marmo dove Cristo era stato deposto dalla croce. Talché all’autore sembra di poter «escludere» che alle Blacherne vi fosse davvero quella stoffa di 1.200 anni prima.
Stessa perplessità Nicolotti mostra nei confronti del sudario di Oviedo, la cui esistenza è attestata da un documento (non originale) del 1075 e che, nel 1101, fu autenticato dal vescovo Pelayo. Secondo Nicolotti, Pelayo «mise mano a una potente creazione ideologica atta a fornire una legittimazione storica e propagandistica alla supremazia della sede di Oviedo la cui importanza religiosa e politica era in declino», ma si caratterizzò per un’assoluta mancanza di rigore, tant’è che i suoi contemporanei lo chiamavano «el fabulero» (il raccontafavole). Singolare è la circostanza che molti storici si siano dimostrati assai poco «scientifici» nell’occuparsi di questo argomento. E qui Nicolotti polemizza esplicitamente con la storiografia che si è occupata delle reliquie: «Quando una notizia leggendaria coincide con la tesi che si vuol dimostrare, la si accoglie; quando vi si oppone, la si scarta accusandola di fantasiosità».
Ma veniamo alla Sindone vera e propria. I primi documenti che ne parlano risalgono alla seconda metà del Trecento e riguardano la chiesetta campagnola di Lirey, edificata a spese del cavaliere francese Geoffroy de Charny. De Charny le avrebbe donato la Sindone, da lui avuta non si sa bene come, per conferirle prestigio. Grande e immediato fu il successo di quel panno. Ma la Chiesa era perplessa. Il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis-sur-Aube, raccontò nel 1389 che a Lirey il decano dei canonici Robert de Caillac aveva fatto esporre «un lungo telo che recava l’immagine del corpo straziato del Cristo» per esibirlo ai fedeli a scopo di lucro, «lasciando credere che fosse l’autentico lino sepolcrale di Gesù». Il vescovo Henry de Poitiers, predecessore di d’Arcis, aveva compiuto un’indagine su quel lino ed era giunto alla conclusione che si trattava di una «frode»: «Quella sindone», scrisse, «era una semplice stoffa su cui un abile falsario aveva artificiosamente raffigurato il corpo martoriato del Cristo». Fu addirittura identificato l’artefice della contraffazione, che confermò i sospetti del vescovo. Il decano e i suoi complici «furono costretti a cessare le ostensioni e fecero sparire il panno in modo che il vescovo non potesse sequestrarlo».
Così per più di trent’anni della Sindone di Lirey non si seppe più nulla. Finché nel 1389 un Papa d’obbedienza avignonese, Clemente VII (Robert de Genève), rese nulla la sconfessione di Pierre d’Arcis. Il quale però si rivolse al Pontefice con un «memoriale» in cui si riepilogavano i termini della vicenda con una versione decisamente ostile alla tesi dell’autenticità della Sindone. Qualcuno, ricorda Nicolotti, «ha ipotizzato che la tolleranza dimostrata da Clemente VII di Avignone nei riguardi della ostensione della Sindone vada anche letta alla luce delle contrapposizioni tra i due Papi contemporaneamente regnanti, Clemente VII, appunto, e a Roma Bonifacio IX: in epoca di scisma, Clemente avrebbe avuto qualche interesse nel favorire il culto della Sindone a discapito di quello della Veronica che veniva esposta nel 1390 a Roma, nel territorio sottoposto al Pontefice suo concorrente». Clemente VII autorizza dunque l’ostensione della Sindone, ma – e questo è assai rilevante – impone ai canonici di precisare che non si tratta dell’autentico sudario, bensì di una «raffigurazione» o «pittura». Talché tre ecclesiastici di Liegi, che nel 1449 si occuperanno del caso, ribadiranno che «da tutti i documenti inerenti alla Sindone» veniva fuori che il lino «non è il vero sudario di Gesù Cristo, ma soltanto una rappresentazione e una figura». Si deve dunque registrare questa stranezza. A dispetto del fatto che vescovi e Papi in passato avessero dichiarato «l’autenticità di numerosissime reliquie che poi sono state riconosciute come false», qui è accaduto l’esatto contrario: sia il vescovo sia il Papa intervennero «a limitare il culto di un oggetto che, secondo loro, non doveva essere considerato una reliquia». Furono alcuni religiosi del luogo e molti laici semmai ad essere «propensi a riconoscerne l’autenticità». È, come giustamente sottolinea Nicolotti, un caso storiografico «raro, se non unico».
Il resto lo fecero i Savoia. A metà del Quattrocento un’erede di Geoffroy I, Marguerite de Charny, aveva donato la Sindone a Ludovico di Savoia. Un vicenda misteriosa, per la quale Marguerite era stata scomunicata e il passaggio del prezioso telo era stato osteggiato dalla Chiesa. La «tutt’altro che chiara posizione giuridica di Marguerite nei riguardi della Sindone e il divieto di commerciare in reliquie», osserva Nicolotti, «spiega perché la Sindone sia stata ceduta ai Savoia senza un consueto atto di vendita che la menzionasse esplicitamente». E spiega anche «perché i successivi storici di casa Savoia si siano dati da fare per cancellare questa indecorosa storia, raccontando che la Sindone era giunta fra le mani del duca come dono voluto dal cielo». I Savoia la conservarono a Chambéry e, a cavallo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, alcuni Pontefici si fecero possibilisti circa l’autenticità della Sindone. Nel dicembre del 1532 andò a fuoco la Sainte-Chapelle che ospitava il telo. Nel 1534, François Rabelais in Gargantua la diede per bruciata «così che», scrisse, «non se ne poté salvare un solo pezzettino». E invece in quello stesso 1534 il panno fece la sua ricomparsa. Giovanni Calvino sostenne che si trattava di una reliquia falsa e di rimpiazzo: «La pittura era così fresca che mentire non sarebbe servito a nulla, se ci fossero stati occhi per guardare». Del resto, anche Nicolotti mette in evidenza i suoi non pochi dubbi. Tanto più che trascorsero alcuni mesi prima che papa Clemente VII (Giulio de’ Medici, Pontefice a tutti gli effetti, da non confondere con il Clemente VII citato in precedenza) desse ai suoi l’incarico di «certificare la sopravvivenza della reliquia». Un tempo che, secondo qualcuno, potrebbe essere stato impiegato «per trovare una stoffa vecchia di due secoli e abbastanza somigliante, nonché un falsario sufficientemente abile capace di fabbricare una sindone nuova che potesse somigliare a quella distrutta». L’aggiunta delle «bruciature fabbricate ad arte» sarebbe stata «necessaria perché non si poteva pensare di mostrare al popolo una sindone intonsa». Eppure ci furono 35 «testimonianze giurate» che attestavano si trattasse della vera Sindone sopravvissuta all’incendio… Ma, dopo un accurato esame, Nicolotti è in grado di stabilire che quei 35 testimoni «erano tutti legati ai Savoia da un intreccio di relazioni di sudditanza, interesse politico, dipendenza economica, favori e vincoli familiari».
In seguito la Sindone fu spostata infinite volte, passò indenne attraverso numerosi conflitti del Cinquecento finché, nel 1578, il duca di Savoia la portò a Torino per esporla all’omaggio dell’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, reduce dalla terribile pestilenza che aveva colpito la sua diocesi nel biennio 1576-1577. Il cardinale si recò in pellegrinaggio alla Sindone di Torino nel 1578 e poi altre tre volte, nel 1581, nel 1582 e nel 1584. Il 12 aprile 1582, Gregorio XIII estese il carattere di solennità della festa della Sindone del 4 maggio anche alle terre di qua dai monti e concesse l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli confessati e comunicati che avessero assistito all’ostensione. Di qui fiorirono nuove leggende. Durante l’assedio di Torino del 1706 la veggente Serafina Brunelli disse di aver visto la Sindone prender forma di roccia e avvolgere la città come una muraglia di difesa contro i francesi. Le ostensioni poi proseguirono in modo regolare fino alla seconda metà del Settecento, in epoca illuminista, quando subirono un «drastico ridimensionamento» ed ebbero luogo «praticamente soltanto in occasione di eventi riguardanti casa Savoia». I quali Savoia si batteranno ancora nel corso dell’Ottocento perché alla «loro» Sindone fossero riconosciuti tutti i possibili titoli di autenticità.
Ma il 6 giugno del 1900, Ulysse Chevalier, canonico di Romans-sur-Isère, rinomato storico del Medioevo, presentò alla Sorbona uno Studio critico sull’origine del S. Sudario di Lirey-Chambéry-Torino, in cui diede il giusto rilievo alla circostanza che non ci sia nessuna notizia certa sulla Sindone anteriore al XIV secolo. Gli storici italiani, per non inimicarsi la Chiesa di Roma e casa Savoia, si astennero, eccezion fatta per qualche ardimentoso, dall’intervenire «scientificamente» sulla questione. Una nuova ostensione fu fatta nel 1931 per celebrare (un anno dopo) le nozze di Umberto di Savoia con Maria José del Belgio. L’arcivescovo di Torino Maurilio Fossati fece presente che il lavoro di Chevalier aveva provocato «opposizioni» alla riproposizione in pubblico del sacro telo. Ma papa Pio XI si fece personalmente garante del fatto che quelle opposizioni «non reggevano». Nel 1936 lo stesso Pontefice definì la Sindone «un ancor misterioso oggetto, ma certamente non di fattura umana (questo già si può dir dimostrato)». In questo periodo si allentò il legame tra Sindone e casa Savoia (Vittorio Emanuele III non si recò mai a visitarla) e si accentuò, invece, quello con la Chiesa.
Nel corso della Seconda guerra mondiale il telo fu trasferito, di nascosto, nell’abbazia di Montevergine nei pressi di Avellino. Nel 1959 papa Giovanni XXIII confessò di aver avuto «qualche dubbio sulla veridicità della reliquia», ma di essersi poi accorto di quanto essa fosse «cosa sacra e reale». Però a metà degli anni Sessanta, il successore di Fossati Michele Pellegrino, nuovo arcivescovo torinese, evitò con cura di dichiararsi a favore dell’autenticità della reliquia e, nel 1969, istituì una commissione che avrebbe dovuto procedere ad una ricognizione sul telo (i risultati, assai deludenti, furono resi noti solo nel 1976). Il 1973 fu l’anno dell’ostensione televisiva della Sindone. A poco a poco nasceva la «sindonologia», che Nicolotti definisce una disciplina con «le caratteristiche tipiche delle pseudo-scienze»: «opera di persone che hanno un alto interesse personale nei suoi confronti, disposte anche ad accontentarsi di congetturare su un oggetto che non si può nemmeno vedere da vicino». Un vero scienziato è, invece, il microscopista di Chicago Walter McCrone, che nel 1977 stabilisce che «la figura dell’uomo della Sindone è stata dipinta con l’applicazione di ocra rossa in una tempera di collagene animale molto diluita». Nel 1997 nuovo incendio: la Sindone si salva una seconda volta dalle fiamme per quello che, secondo la Chiesa, è un «intervento divino». Nel frattempo la scienza avanza dubbi sempre più argomentati. Ma per lo storico resta l’obiezione principe, quella del biblista Josef Blinzler: dal momento che non esiste documentazione anteriore alla disputa fra i canonici di Lirey e il vescovo di Troyes del XIV secolo, «i più di mille anni di silenzio qualificato rendono del tutto improbabile se non impossibile l’ipotesi che la Sindone di Torino sia stata custodita fin dall’era apostolica e conservata lungo i secoli». Tutto ciò che è stato addotto a spiegare quei mille e passa anni di silenzio è nient’altro che frutto di un uso acrobatico della storia.
Paolo Mieli, Il corriere della sera, 17.3.2015.
Almeno da un secolo a questa parte, gli storici hanno imparato che studiare il falso è quasi altrettanto rilevante che studiare il vero. Almeno da quando il medievista francese Marc Bloch trasse dalla sua esperienza della Grande Guerra combattuta sul fronte occidentale una lezione definitiva intorno al valore delle «false notizie», e del loro intreccio con le mentalità collettive: con le aspettative e con gli interessi, con i pregiudizi e con i miti che trasformano una percezione fallace in una leggenda “vera”.
Va letto come una magnifica variazione sul tema di Bloch il libro che uno storico del cristianesimo, Andrea Nicolotti, ha pubblicato da Einaudi con il titolo Sindone. E unicamente si può rimpiangere che il sottotitolo suoni Storia e leggende di una reliquia controversa, mentre la stringente dimostrazione dell’autore avrebbe giustificato un aggettivo diverso: Storia e leggende di una falsa reliquia. Tanto il libro di Nicolotti ha il pregio di certificare – per l’appunto – la ricchezza storico-antropologica di un falso. Nel caso specifico, il falso sudario di Gesù Cristo che in queste settimane nuovamente viene esposto, a Torino, alla venerazione dei pellegrini d’ogni dove.
Dopo il libro di Nicolotti, non si vorrebbero più leggere frasi di circostanza come quelle che figuravano ancora lo scorso 19 aprile, sulle pagine del «Corriere della Sera», sotto la penna di un giornalista còlto e acuto com’è Aldo Cazzullo: «La verità sulla Sindone non esiste. Perché un dubbio e di conseguenza un mistero resterà sempre». Basta. La verità sulla Sindone esiste, non c’è più alcun dubbio né alcun mistero. La Sindone è una fabbricazione medievale, è un finto sudario del I secolo d.C. approntato da un qualche falsario in una data compresa fra la metà del Duecento e la metà del Trecento. Ma il fatto che la Sindone sia taroccata nulla toglie alla sua importanza culturale e spirituale. Al contrario, una volta appurato che siamo di fronte a una falsa reliquia, proprio allora incomincia – per uno storico che abbia letto bene Marc Bloch – la parte più suggestiva e più istruttiva della ricerca. Come e perché la fede nell’autenticità della Sindone ha potuto resistere, per oltre sei secoli, dapprima agli indizi, poi alle prove della sua falsità?
Gli indizi della falsificazione arrivarono presto: a pochi anni o pochi decenni di distanza dall’exploit del falsario. Il luogo è il regno di Francia, la provincia è la Champagne, la città è Troyes, la diocesi è quella del vescovo Pierre d’Arcis-sur-Aube, l’anno è i1 1389. Rivolgendosi sia al re Carlo VI di Valois sia al papa d’Avignone Clemente VII, il vescovo Pierre denuncia le trame dei canonici di una piccola chiesa appartenente a un feudo locale. A Lirey, «una stoffa raffigurata con artifizio, su cui in modo abile è stata raffigurata l’immagine duplice di un uomo», viene spacciata come la medesima in cui, sulla collina del Golgota, era stato avvolto «il preziosissimo corpo del Signore nostro Gesù Cristo». Il tutto «non a fine di devozione ma di lucro», per «un fuoco di avarizia e di cupidigia». Inscenando sul luogo falsi miracoli. E facendosi beffe dell’evidenza per cui «quello in realtà non poteva essere il sudario del Signore, dal momento che il Santo Vangelo non fa alcuna menzione di un’impressione di tal fatta, mentre invece, se fosse vero, non è verosimile che sia stato taciuto od omesso dai santi evangelisti, né che sia stato nascosto od occultato fino a quel tempo».
Scrivendo al papa, il vescovo Pierre riferisce che un’indagine già era stata compiuta, negli anni a ridosso del 1356, dal suo predecessore Henry di Poitiers, e che la truffa era stata fin da allora smascherata, con tanto di confessione dei colpevoli. «Fu comprovato, anche grazie all’artefice che l’aveva raffigurata, che era stata fatta per mezzo umano e non realizzata o concessa miracolosamente». Per una trentina d’anni i canonici di Lirey avevano smesso, quindi, di profittare della credulità dei fedeli spacciando la reliquia come vera. Ma ecco che la truffa stava ricominciando... Verso la chiesetta di Lirey «ogni giorno affluiva abbondantemente la gente della Champagne e delle regioni vicine per adorare quel panno, non temendo di commettere idolatria». Era ora di finirla. Tale «detestabile superstizione» – implorava il vescovo dal papa – andava «radicalmente estirpata per intervento della stessa Santità Vostra, cosicché quella stoffa non sia esibita al popolo o addirittura venerata».
In una Francia che cercava di risollevarsi dalla Peste Nera e dai terribili lutti che questa aveva seminato, alimentando fra i laici un tanto più impellente bisogno di sacro, il vescovo Pierre seppe dire già tutto: il silenzio della tradizione evangelica riguardo alle stoffe sepolcrali di Gesù, l’irragionevolezza di un’epifania della Sindone dopo milletrecento anni di eclissi, la miscela di speculazione pretesca e credulità popolare che malamente si celava dietro il culto del lino di Lirey. Ma il vescovo Pierre non poté fare i conti né con le cautele politiche di un papa dimezzato (in tempo d’antipapi) com’era Clemente VII, né – tanto meno – poté fare i conti con uno sviluppo decisivo della storia: la scelta quattrocentesca del duca di Savoia, Ludovico, di acquistare (sotto banco) il falso sudario, per farne il gran simbolo religioso del suo casato.
La parte centrale del libro di Nicolotti è dedicata a questo versante della vicenda: gli usi sabaudi della Sindone, dal Quattrocento all’Ottocento, attraverso ostensioni organizzate prima a Chambéry e poi, dopo il trasferimento della capitale, a Torino. Usi sabaudi, e forse abusi sabaudi: non è infatti da escludere che la falsa reliquia di Lirey sia stata rimpiazzata, nel 1534, da un secondo falso sudario, perché un rovinoso incendio aveva distrutto il primo. Dopodiché la ricostruzione di Nicolotti percorre il versante novecentesco della storia. E brillantemente ragiona del paradosso epistemologico per cui tanto più si è potuto discettare, tra ambienti devoti e cultura popolare, dell’autenticità della Sindone, quanto più gli studi umanistici e le scienze “dure” andavano dimostrandone la falsità.
La prova definitiva intervenne, com’è noto, nel 1988: quando un campione del lino della Sindone fu sottoposto, presso diversi laboratori internazionali, all’esame del radiocarbonio (isotopo C14), e l’unanime referto stabilì trattarsi di un tessuto databile all’epoca 1260-1390. Ma la radiodatazione non ha scoraggiato gli adepti della pseudoscienza che da qualche decennio in qua si definisce «sindonologia». Al contrario. Mentre la Chiesa cattolica ha precluso alla comunità scientifica accreditata ogni nuovo accesso al tessuto della Sindone, una compagnia di giro internazionale fatta di generosi illuminati e di scienziati della domenica, di pubblicisti compiacenti e di fantasiosi lestofanti, ha costruito intorno a pollini e campi elettrici, laser e neutroni, materia e antimateria, una vera e propria fabbrica mitopoietica: una fucina di assurdità “autenticiste” non si sa se più esilaranti o più inquietanti.
P.S. Giunto in fondo a questo libro dell’Einaudi, l’ammirato lettore potrà chiedersi come mai – secondo quanto si ricava dalla bandella di copertina – Andrea Nicolotti non sia, a quarant’anni suonati, altro che un precarissimo «assegnista» dell’Università italiana. E in attesa che uno storico di tale livello, alimentando la «fuga dei cervelli», si decida a proseguire la carriera in quel di Parigi o di Oxford o di Stanford, il lettore potrà ben sospettare che si tratti dell’ennesimo piccolo scandalo dell’accademia nostrana.
Sergio Luzzatto, Il Sole 24 Ore, 10.5.2015.
Mentre scriviamo, è in atto l’ostensione della Sindone a Torino: si è aperta il 19 aprile e chiuderà i battenti il 24 giugno, onomastico di San Giovanni Bosco. Si attende la visita di papa Francesco. Nella sua omelia del 4 maggio, l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia ha parlato della sua commozione nel celebrare la Messa davanti “al sacro Telo”. All’appuntamento ci si può preparare anche leggendo i più recenti libri di storia dedicati alla Sindone. Per esempio, lo svelto e accattivante saggio di Franco Cardini e Marina Montesano che promette di parlare di una Sindone di Torino oltre il pregiudizio (Medusa).
La proposta dei due autori è quella di pacificare le parti in conflitto sulla questione dell’autenticità adottando uno sguardo storico superiore, “a trecentosessanta gradi”. La Sindone, scrivono, è stata «oggetto di culto negli ultimi settecento anni o quasi»: e questo per la fede basta, la fede non ha bisogno di prove. Quanto all’aspetto più propriamente storico delle origini autentiche o spurie del “sacro Telo”, qui la ricerca appare ardua se non addirittura priva di soluzione ai due autori. Stiamo al quia, dunque.
Quasi contemporaneamente è uscito il libro di Andrea Nicolotti, Sindone. Storia e leggende di una reliquia controversa, Einaudi. Siamo davanti in questo caso a una ricerca che ha occupato anni di assiduo lavoro. Ogni tanto giungevano notizie di dove stava scavando questo giovane senz’arte né parte o meglio con grande arte ma nessuna o poca parte nell’Università. Il risultato è imponente. Qui si prende di petto davvero l’intera storia della Sindone, dai cenni trascurabili che se ne incontrano nei Vangeli all’avvio trecentesco della vicenda di quella oggi a Torino e al percorso che l’ha portata trionfalmente nella capitale dei Savoia e da lì agli onori odierni. Nicolotti parte dalla scena di quel venerdì intorno all’anno 30 quando a Gerusalemme un uomo fu condannato a morte e messo in croce, si ferma sull’atto di Giuseppe di Arimatea che lo avvolge pietosamente nella “sindòn” prima di seppellirlo, insegue gli scarsi cenni dedicati a quei tessuti sepolcrali dalla letteratura cristiana antica – in cielo con Cristo secondo il Vangelo di Gamaliele, o conservati secondo il Vangelo di Nicodemo – e si avventura poi nelle descrizioni di reliquie che si infittiscono col moltiplicarsi dei pellegrinaggi in Terrasanta. Con l’età carolingia la svolta: nasce il grande commercio delle reliquie: c’è in loro un potere salvifico destinato a riverberarsi su chi ne è il possessore, a partire dallo stesso Carlo Magno. Il potere ha bisogno della legittimazione del sacro: e questo, per la difettività della natura umana, scatena i “sacri furti” e dà vita a un commercio diffuso dove quando la merce autentica manca la si fabbrica. Ecco che appaiono non una ma molte sindoni e molti sudari funebri: da Compiègne, ad Aquisgrana, ad Arles, a Cadouin, a Magonza e naturalmente a Roma, in San Giovanni in Laterano. Diversi di questi sono ancora conservati. Ad Aquisgrana c’è una sindone, con un sudario e il telo con cui Gesù asciugò i piedi ai discepoli. Quella di Cadouin esiste ancora con le sue macchie di sangue, era stata dichiarata autentica da un vescovo nel ’600 e aveva fatto molti miracoli ma poi si è scoperta l’origine egiziana e islamica del telo.
Quella di Roma non sfuggì ai sarcasmi di Calvino. Invece la sindone oggi a Torino ebbe una contestazione ben più sollecita e autorevole, non di un “eretico” ma di un vescovo. Accadde nel 1389-90: fu allora che Pierre d’Arcis, vescovo di Troyes si appellò al papa per far cessare un abuso introdotto nella collegiata di Lirey alcuni decenni prima. Un canonico, nel 1355, si era procurato un telo dove un pittore aveva dipinto l’immagine del corpo di Cristo. Un pittore sconosciuto: ma come non ricordare l’acuta osservazione di Cardini e Montesano sull’iconografia del volto della Sindone (”un gisant tardogotico”)? Vedere il volto di Dio era pur diventato allora il banco di prova della grande pittura del Medioevo cristiano prima di trasferirsi all’epoca del trionfo dell’immagine – la nostra. Torniamo a Lirey: qui si era cominciato a esibire il te- lo ai fedeli, lasciando loro credere che si trattasse dell’originario e autentico lino sepolcrale di Gesù. Ora il vescovo si sentiva tenuto dai canoni a compiere il suo dovere: chiedeva che si ponesse fine a quella devozione tributata a un pezzo di stoffa. Secondo lui il clero che si rendeva responsabile di quell’abuso favoriva l’idolatria, procedeva «a disprezzo della Chiesa, scandalo del popolo e pericolo delle anime». La denunzia non impedì che lo scandalo continuasse. Ma da questo momento in poi una fitta documentazione doveva accompagnare le successive vicende della sindone: vicende che Andrea Nicolotti ha ricostruito con una straordinaria acribia e competenza e che ci portano fino ai nostri giorni. Perché qui siamo davanti non a quelle storie di false reliquie e di falsi miracoli inaugurate dal capolavoro di Marc Bloch sui “re taumaturghi” e che insistono sul lungo Medioevo, ma davanti a un falso che trionfa col regno dei Savoia, li accompagna sul trono d’Italia fino al termine inglorioso del loro regno e si trasferisce poi nelle mani della curia di Torino e del Vaticano per la felicità di un popolo di feticisti. Un falso moderno, che sopravvive indisturbato nonostante che i risultati della prova scientifica del radiocarbonio, effettuata nel 1988, abbiano datato il tessuto all’arco di anni compresi tra il 1260 e il 1380: un’epoca lontanissima dall’anno della sepoltura di Cristo a Gerusalemme ma tale da coincidere perfettamente con la denunzia del vescovo di Troyes.
Un grande libro, una prova maggiore del valore della ricerca storica. Chissà se i visitatori dell’ostensione lo troveranno tra le pubblicazioni in vendita o se avrà modo di sfogliarlo papa Francesco prima di parlare della Sindone in giugno. Sarà un’occasione importante per scegliere tra l’invito di papa Wojtyla a non avere paura della verità storica e scientifica e il solito cedimento opportunistico alle torbide correnti del turismo devozionale di massa.
Adriano Prosperi, Repubblica, 20.5.2015.
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