D’inverno Coney Island è un luogo desolato. Le giostre ferme, i cancelli chiusi e il silenzio costringono a lavorare di immaginazione: la vita riprende solo con l’arrivo della Pasqua.
Il negozio di souvenir offre teli mare e allegre t-shirt, ma la temperatura è prossima allo zero – e così il numero di clienti.
L’edificio scrostato che ospita il freak show è altrettanto deserto. Una grande insegna recita “Puzza di piedi”, ma chissà a cosa si riferisce. Per trovare segni di vita bisogna entrare da Nathan’s: in questa stagione, i suoi hot dog sono l’unico motivo per affrontare il viaggio di un’ora da Manhattan (tradizione vuole che l’hot dog sia nato sull’isola nel 1870). Sono in corso colloqui per assumere i camerieri: delle quaranta casse, solo due sono oggi in funzione (ma con l’arrivo della bella stagione sarà necessaria una folta armata di dipendenti).
Il gigantesco parco di divertimenti adagiato sulla spiaggia risale al 1902. Furono due imprenditori a volerlo: in occasione dell’Expo Panamericano del 1901, Frederic Thompson ed Elmer Dundy avevano realizzato una giostra che offriva ai visitatori il brivido di un viaggio spaziale: A trip to the moon («Viaggio sulla luna») aveva avuto un enorme successo. L’anno successivo, i due si installarono a Coney Island, costruendo intorno all’attrazione un intero parco a tema, il primo della storia. In Danimarca era attivo dal 1583 il parco di Bakken, ma il “Luna Park” – come venne chiamato – si distingueva per la forte caratterizzazione dell’esperienza offerta: anticipando di oltre mezzo secolo la missione dell’Apollo 11, i visitatori si sarebbero sentiti come astronauti a passeggio sul suolo lunare.
L’esperienza magica offerta è colta nella sua essenza dall’architetto olandese Rem Koolhaas, secondo cui a Coney Island
l’intera struttura della realtà – le sue leggi, le sue aspettative, le sue interdizioni, mutuamente relazionate sulla terra – viene sospesa, e si crea un’assenza di gravità morale che risulta complementare alla letterale assenza di gravità che si è generata durante il viaggio sulla Luna. (1)
Il risultato era
un antidoto alla cupezza della città [di New York]. (2)
A conferma che l’architettura può contribuire a scatenare profonde esperienze emotive, Frederic Thompson considerava il parco un manifesto di tale potenzialità:
Ho costruito il Luna Park seguendo un preciso piano architetturale. Trattandosi di un luogo di divertimento, ho eliminato dalla sua struttura ogni elemento classico e convenzionale, scegliendo uno stile più libero [...] per ottenere un effetto movimentato e allegro. [...] È meraviglioso il modo in cui l’architettura può stimolare determinate emozioni attraverso semplici linee. (3)
La luce del giorno metteva in risalto l’aspetto posticcio del luogo e delle strutture in cartapesta, ma di notte il parco sprigionava tutta la sua magia: più di un milione di lampadine colorate si specchiavano sull’oceano, offrendo ai visitatori uno spettacolo mozzafiato. L’ambivalenza fu sintetizzata da Koolhaas con una fulminante equazione:
Tecnologia + Cartone = Realtà.
A poca distanza dal Luna Park sorgeva Dreamland, un parco più eterogeneo dove si poteva percorrere in gondola una riproduzione del Canal Grande di Venezia, attraversare in treno una ricostruzione delle Alpi svizzere e visitare il villaggio di Lilliput, abitato da più di trecento nani.
Stravolgendo completamente Coney Island, i creatori dei due parchi la trasformarono in quella che Koolhaas definì
un tappeto magico in grado di riprodurre un’esperienza ed evocare praticamente qualsiasi emozione. (4)
Si ritiene che l’isola debba il nome “Coney” ai numerosi conigli che gli europei vi trovarono nel Seicento – e sorrido all’idea che un mio antenato sia rientrato a Torino raccontando dei cunij incontrati sull’isolotto a sud di New York...
1. Rem Koolhass, Delirious New York: A Retroactive Manifesto for Manhattan, The Monacelli Press, New York 1978, p. 39.
2. Koolhass 1978, p. 41.
3. Koolhass 1978, p. 39.
4. Koolhass 1978, p. 61.
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