Magic in the moonlight è anche un bel film? Non sarei pronto a giurarlo. Dell’ultima commedia di Woody Allen mi ha ipnotizzato la sostanza – un dibattito al centro dei miei interessi da quasi vent’anni – facendomi perdere di vista la forma.
Ad agosto, letto che il protagonista sarebbe stato un prestigiatore “arrogante”, mi ero chiesto a cosa servisse specificarlo. Colin Firth è un illusionista pieno di sé, tanto bravo con le carte quanto inabile con l’altro sesso; una caricatura dello scettico da barzelletta, chiuso a ogni dimensione che trascenda la razionalità e totalmente anaffettivo. Il mago divide la scena con Emma Stone, una sensitiva di cui è difficile non innamorarsi, le cui doti medianiche sembrano dimostrate oltre ogni ragionevole dubbio.
Dall’incontro di due “tipi” del genere è logico attendersi le classiche dicotomie Mente/Cuore, Scienza/Spirito, Smart/Mark. Ma trattandosi di un gioco orchestrato da Woody Allen, il duetto che va in scena ostacola gli schieramenti netti e impedisce l’abbraccio semplicistico ed esclusivo dell’uno o dell’altro; da bravo illusionista, il regista è abile a confondere lo spettatore: l’inganno non può avere occhi tanto belli, né il raziocinio un cuore tanto arido.
È facile immaginare che si arrabbieranno tanto i sostenitori del paranormale (presi per i fondelli dall’inizio alla fine) quanto gli illusionisti e scettici di cui Firth è lo specchio osceno.
Se la condizione auspicabile è l’incanto disincantato di chi – Smark – trova un equilibrio illuminato tra lucidità e “senso del magico”, Magic in the moonlight ne è la guida definitiva: nessun film ha mai messo in scena, con tanta leggerezza e complessità, l’acceso dibattito sul ruolo delle illusioni che gravitano intorno al paranormale; ci si interroga sull’Aldilà e l’esistenza di Dio, sul potere della preghiera e la sua insondabilità e più di tutto sul rapporto della felicità con ciascuna di tali questioni.
Molti illusionisti liquidano la questione alzando spallucce e citando cinici il cardinale Carlo Carafa (vulgus vult decipi decipiatur, “[poiché] la gente vuol essere ingannata, la si inganni”); Allen si smarca da soluzioni da quattro soldi, preferendo (come suo solito) le buone domande alle risposte banali e rifiutando opzioni che non siano autenticamente emancipanti.
Oltre a essere una sofisticata commedia filosofica sul materialismo magico, il film è anche un subdolo gioco di prestigio, che si fa testimone del potenziale trasformativo delle esperienze magiche (nell’accezione che ne diamo nel nostro L’arte di stupire). E a tratti si scorge in controluce Federico Fellini.
Se nel dilemma amoroso di Firth si riconosce quello di Mastroianni in 8½ (l’intellettuale Anouk Aimée o la focosa Sandra Milo?), lo sguardo patetico sulla borghesia che trova ingenuo sollievo nella medianità è lo stesso con cui il regista italiano osservava la fauna dei salotti magici di Gustavo Rol (ne restano tracce in Giulietta degli spiriti); per anni Fellini finse di stare al gioco, pur di vivere dall’interno quel surreale passatempo per ricchi annoiati, orchestrato da un trickster nella cui arte illusionistica si specchiava pienamente (di sé diceva spesso: «Sono un gran bugiardo.»)
Il cinico Allen aggiunge un dettaglio ironico. Nata in una famiglia operaia, la sensitiva ha sfruttato doti medianiche per compiere (con successo) la scalata sociale. Concedendoci uno sguardo dietro le quinte, il regista svela la natura profonda di tali “poteri” – denunciando con essi la fondamentale fragilità e inconsistenza di quella borghesia che ha accolto la giovane.
Magia come strumento per manomettere il sistema e fare la Rivoluzione? Credo di averne già sentito parlare.
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