Hai mai osservato il frigo con un senso di desolazione? Ad Alice accadde la sera in cui si trovò a cenare da sola. In quell’occasione, un pensiero banale bastò per distoglierla dalla tristezza.

Stava mangiando una semplice zuppa di pomodori, quando le tornò in mente di aver già visto quella lattina. Era successo qualche giorno prima, a una mostra di Andy Warhol.

Commentando il momento di illuminazione vissuto dalla protagonista del suo romanzo, Alain De Botton scrive:

Si trattava dell’ennesimo caso in cui l’arte migliora la vita. Warhol, con la sua umile scatoletta di zuppa, aveva compiuto una miracolosa operazione attraverso cui non soltanto l’arte imitava platonicamente un oggetto, ma wildeanamente lo migliorava. Nelle scatolette Campbell c’era sempre stato qualcosa di deprimente, ma era molto meno deprimente pensare che le scatolette erano state notate da qualcuno che si era curato di innalzarle al rango di oggetti di valore, esposti ora nei musei e forniti di una statura iconica. (1) 

Walter Benjamin avrebbe spiegato che Warhol era stato in grado di invocare, intorno a un oggetto banale, una sostanza impalpabile chiamata “aura”.

All’argomento è dedicato il libro di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea (il Mulino 2006). I due autori analizzano, con un sontuoso apparato bibliografico, l’alone di unicità che, avvolgendo un oggetto, lo trasforma in opera d’arte – nella loro definizione “l’insieme degli schemi narrativi e delle cornici sociali e cognitive che trasformano qualcosa in arte.”

Il libro ha avuto un’enorme influenza sul mio Te lo leggo nella mente (Sperling&Kupfer 2013): il terzo, omonimo capitolo del mio lavoro è dedicato all’aura e al suo ruolo nell’ambito dell’illusionismo. Come nell’arte moderna, l’efficacia di un effetto magico dipende soprattutto da una sostanza ineffabile che si evoca attraverso un discorso, una narrativa in grado di turbare lo sguardo di chi osserva, sfidandone percezioni e preconcetti.

Operando tale turbamento e ridestando l’attenzione sulle cose di tutti i giorni, l’arte moderna è in grado di migliorare esperienze potenzialmente squallide come la cena di Alice. Alain De Botton lo spiega così:

Ignorati per decenni in quanto oggetti da rappresentare, toccati dal disprezzo dovuto a tutti gli “oggetti ordinari”, scatolette, hamburger, asciugacapelli, rossetti, cuffie da bagno e interruttori esigevano ora l’attenzione di seri critici d’arte perché gli artisti se ne occupavano. Ora i critici dovevano starsene a fissare una serie di oggetti prima considerati umili, perché era stato deciso che, dovessero essere inclusi nel regno dell’estetica assieme alle Madonne, alle Veneri e alle Annunciazioni di Cristo. Una cornice attorno all’oggetto ordinario impediva che le sue forme, i suoi colori e i suoi riferimenti potessero passare come al solito inosservati e avvertiva lo spettatore che “Qui dentro sta succedendo qualcosa di speciale”. (2) 

La sindrome di Warhol

Andy Warhol disse una volta che

La cosa più bella di Firenze è McDonald’s.

Nel loro recente L’artista e il potere (il Mulino 2014) Dal Lago e Giordano tornano sul tema dell’aura con altrettanto acume e intelligenza, chiamando “sindrome di Warhol” l’incapacità di distinguere tra ciò che è interessante da ciò che è banale:

In mezzo a una strada, in un supermercato o in qualsiasi altro luogo, chi è colpito dalla sindrome di Warhol trova tutto straordinariamente significativo. (3) 

Tale affezione nacque ben prima di Warhol e avrebbe colpito – tra gli altri – Vincent Van Gogh, incapace di distinguere la bellezza di un campo di grano dalla banalità di un paio di scarpe. Vittima di una confusione del genere, l’artista dipinse entrambi i soggetti con eguale impegno e senza avvertire una distanza significativa tra i due.

“Campo di grano con cipressi” (1889) – “Un paio di scarpe” (1886)

Dobbiamo essere grati per l’esistenza di una sindrome del genere: è grazie a tale confusione che gli artisti non si fanno scrupoli a celebrare il quotidiano e rivelarcelo sotto una luce insolita e sorprendente. Credo addirittura che la sindrome di Warhol sia un requisito fondamentale per diventare Wonder Injector: di tale affezione soffrirono Dickens e Chesterton, entrambi esponenti di quel sovversivo “romanticismo del prosaico” che contesta il romanticismo convenzionale esaltando le virtù sommesse, domestiche e quotidiane.

Dal Lago e Giordano fanno notare che non tutti sono in grado di cogliere, dall’arte, l’aiuto che trasformò la cena di Alice in qualcosa di più “signifcativo”:

Van Gogh non voleva dipingere qualcosa di bello: né nel caso del campo di grano, né nel caso delle scarpe vecchie. Molto probabilmente, mentre era ancora in vita, avrebbe trovato qualcuno disposto ad ammettere la bellezza del primo soggetto, ma non del secondo. Oggi, tutti noi troviamo belle le scarpe di Van Gogh [...] [ma] chi loda oggi quelle di Van Gogh è del tutto indifferente, invece, di fronte a un nuovo paio di scarpe qualunque, che non gli dicono niente. (4) 

Eppure tra le nostre scarpe vecchie e quelle di Van Gogh c’è una sola differenza:

Le scarpe dipinte da Van Gogh devono essere belle. Le nostre, usate o gettate in un cassonetto della spazzatura, non possono esserlo, perché nessun artista le ha ancora notate. (5) 

Da qui i due traggono un’interessante definizione negativa di “arte”:

Non è arte tutto ciò che non è ancora stato autorizzato come tale. (6) 

L’amara considerazione compare nelle ultime pagine del libro, nel capitolo più provocatorio (“Un’arte senza potere”): qui i due autori illustrano strategie per ribellarsi alle definizioni di “arte” dominanti, estendendo democraticamente a chiunque il potere di trasfigurare un oggetto comune, facendogli conquistare un valore artistico. (7) 

La celebrazione di un dettaglio

Alice è la protagonista di The Romantic Movement. Sex, Shopping and the novel, un curioso romanzo d’amore in cui Alain De Botton – com’è nella sua cifra stilistica – propone un’ampia mappa dei moti dell’anima più sottili legati al rapporto di coppia. Per lo scrittore londinese, la zuppa Campbell evidenzia un aspetto interessante del corteggiamento:

Se Cyril Connolly definiva il giornalismo qualcosa da prendere in considerazione una volta sola e la letteratura qualcosa da riconsiderare, allora le scatolette Campbell erano giornalistiche (meri contenitori usa e getta per conservare del liquido) fino a quando Warhol non le aveva elevate al livello di letteratura (qualcosa da appendere al muro per una reiterata visione). Non si poteva trovare un’analogia tra ciò che Warhol aveva fatto con la pittura e ciò che fa un innamorato quando adora un mazzetto di efelidi (fino a quel momento ignorate) sul naso o sulla mano dell’amata? Non si trattava dello stesso processo quando un innamorato sussurrava «Sai che non ho mai visto nessuno con dei/delle/polsi/nei/ciglia/unghie dei piedi adorabili come i tuoi/le tue?», e quando un artista indicava le qualità estetiche di una scatoletta di zuppa o di un tubetto di lucido da scarpe? (8) 

In equilibrio tra cinismo e romanticismo, De Botton riconosce che si tratta di un aspetto ridicolo dell’esperienza umana:

ridicolo quanto una scatoletta di zuppa appesa al muro; eppure se si pensava che tali banalità erano state appese lì per essere ammirate in quanto parte di un tutto più grande e importante, l’amore per un’intera persona per esempio, allora si poteva trovare una giustificazione. Una volta considerato un aspetto come dettaglio di qualcosa di più grande, esso era redento dal suo status di cosa banale. (9) 


Note

1. Alain De Botton, Il piacere di soffrire, Guanda, Parma 1996, p. 22.

2. De Botton, p. 23.

3. Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, L’artista e il potere, il Mulino, Bologna 2014 p. 202.

4. Ibidem.

5. Ibidem.

6. Dal Lago e Giordano, p. 203.

7. Il libro si conclude con la proposta di una performance (che coinvolge un’opera di Banksy) rivolta a tutti, indipendentemente dallo status di artista.

8. De Botton, pp. 23-24.

9. De Botton, p. 24.

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