La prima spedizione moderna nelle terre dei Maya risale al 1839. In quell’anno Frederick Catherwood (1799-1854) e John Lloyd Stephens (1805-1852) raggiunsero in modo rocambolesco la città honduregna di Copán. A leggerne i resoconti, l’atteggiamento degli studiosi dell’epoca presentava diversi punti di contatto con quello di Roberto Giacobbo, secondo cui i Maya avrebbero origine extraterrestre. Ecco la storia di un pregiudizio che cambia volto ma è duro a morire.
Nella prima metà dell’Ottocento, tra gli studiosi regnava lo scetticismo: le descrizioni dei ricchi siti trovati dagli spagnoli in America centrale erano incoerenti con l’immagine che si aveva dei selvaggi che vi abitavano. Come potevano quei rozzi cacciatori, coperti da pelli di animali, vantare antenati in grado di erigere complessi architettonici così spettacolari? La presenza nella zona di popolazioni così arretrate mal si coniugava con l’esistenza di testimonianze monumentali degne di una civiltà molto sviluppata.
Litografia di Frederick Catherwood.
Un simile dilemma si era presentato tre secoli prima ai conquistadores; poiché Cristoforo Colombo aveva scoperto un nuovo continente, la Chiesa si era posta il problema dell’origine degli indigeni locali: se il diluvio universale aveva annientato l’intera popolazione mondiale risparmiando solo Noè, i cui figli avevano ripopolato la terra, da dove provenivano gli indiani d’America?
Osservando l’aspetto dei nativi, alcuni vi riconobbero dei tratti semitici e ipotizzarono che si trattasse dei discendenti di una delle tribù perdute di Israele. Per spiegare la loro presenza in terre così lontane, ipotizzarono che avessero raggiunto le coste del centro America sulle navi dei Fenici, gli unici in grado di compiere un’impresa navale del genere.
La teoria più condivisa fu quella di Gregorio Garcia (1554-1627), un religioso spagnolo che nel suo libro Origine degli Indios del Nuovo Mondo (1607) (1) trovò nella Bibbia (2) il riferimento a un certo Jokthan, uno dei discendenti di Noè da parte di suo figlio Sem; Garcia ritenne che grazie a lui la regione centroamericana fu battezzata “Yucatan”.
La controversia prese toni molto accesi quando il giurista olandese Huig van Groot (1583-1645) distinse tra gli indiani del nord di origine scandinava, quelli del Perù di origine cinese e quelli del Brasile di provenienza africana. Johannes van Laet (1581-1649) criticò duramente l’ipotesi, sostenendo che solo un imbecille avrebbe dubitato del fatto che gli indiani discendevano dagli sciti, un’antica popolazione asiatica.
Intanto in Inghilterra gli studiosi si scontravano su un’ipotesi diversa: in due libri che si contraddicevano l’un l’altro – intitolati rispettivamente Americani, non Ebrei (3) e Ebrei in America (4) – Hamon L’Estrange (1605-1660) e Thomas Thorowgood (~1595-1669) discutevano sull’origine semitica degli indiani d’America.
I due libri di Thomas Thorowgood e Hamon L’Estrange.
Durante il lavoro di raccolta della documentazione, John Lloyd Stephens aveva a disposizione solo queste opinabili ipotesi, ma in seguito alla scoperta di Copán e degli altri siti maya, nessuno poté più mettere in dubbio la straordinaria abilità di chi fu in grado di erigere complessi monumentali di quelle dimensioni. Purtroppo, invece di riconoscere la possibilità che gli indiani fossero gli ultimi discendenti di una evoluta stirpe indigena, gli studiosi avanzarono ipotesi alternative che lasciassero intatti i loro pregiudizi; si affermò quindi che le strutture piramidali fossero state costruite dagli egizi, o dai vichinghi giunti dalla Scandinavia, o ancora dai cinesi o dai mongoli arrivati con gli elefanti, o forse dai romani, dai cartaginesi o da qualche oscura tribù semitica. Come all’epoca dei conquistadores era difficile accettare che esistessero popoli civilizzati che non discendessero direttamente dal popolo eletto di Yahvè, nel corso dell’Ottocento l’orgoglio occidentale impedì di accogliere l’ipotesi che quei cosiddetti “selvaggi” potessero avere origini nobili e tecnologicamente avanzate: se erano stati in grado di fare qualcosa di buono, lo dovevano a un apporto esterno, di origine indubbiamente indoeuropea.
Questa sotterranea forma di razzismo sopravvive in molti dei moderni testi che affermano l’origine extraterrestre dei Maya, trattandosi di una versione aggiornata dei vecchi pregiudizi: da quando l’archeologia ha dimostrato che lo sviluppo della loro civiltà non ha richiesto l’apporto di alcun contributo da parte delle popolazioni oltreoceano, alcuni studiosi hanno sostituito con gli alieni la fonte di tale ipotetica influenza.
Il messaggio è sempre lo stesso, anche se cambiano i protagonisti: i Maya hanno raggiunto una tale precisione nei loro calcoli astronomici che non possono esserci arrivati da soli, senza le strumentazioni scientifiche di cui disponiamo oggi; dunque, se sono stati in grado di fare qualcosa di così straordinario, hanno certamente avuto un apporto esterno, di origine evidentemente extraterrestre.
Rifacendosi alle teorie di José Argüelles, l’avvocato Fiorella Capuano è una sostenitrice dell’esistenza di due razze totalmente distinte: l’una composta da indigeni selvaggi e illetterati, l’altra appartenente a una stirpe superiore. Come affermò in un’intervista rilasciata a Roberto Giacobbo:
È necessario fare una distinzione fra Maya storici e Maya Galattici. I Maya Galattici sono i Maya più evoluti e sono vissuti nel periodo storico di maggiore pace, armonia e bellezza; […] I Maya Galattici sono arrivati sulla terra da altri livelli di coscienza, sono i conoscitori del tempo… (5)
A sua volta Argüelles riteneva che i Maya Galattici avessero tentato di insediarsi dapprima in un piccolo pianeta chiamato Maldek, poi su Marte e infine sulla Terra. Come scrive Giacobbo:
I Maya Galattici […] avrebbero lavorato con fervore per lasciare all’umanità palazzi e iscrizioni che restassero a imperitura testimonianza del loro passaggio e del loro messaggio: questo spiegherebbe gli eccezionalmente fertili secoli dell’età dell’Oro maya. Quei secoli che finora ci sono apparsi come un evento straordinario. (6)
L’argomento è qui espresso al meglio: i selvaggi Maya delle origini raggiunsero conoscenze e lasciarono monumenti straordinari? Impossibile: tutto ciò deve essere stato offerto loro da una razza superiore. Una razza piuttosto vigliacca, perché ai primi segnali dell’arrivo dei conquistadores, pensarono bene di svignarsela e lasciare che a morire fossero i Maya storici; l’importante è che sopravvivessero i loro monumenti. Continua infatti Roberto Giacobbo:
Così i Maya Galattici avrebbero lasciato la Terra. […] Il tempo delle tenebre si stava velocemente avvicinando, gli invasori erano prossimi a giungere e, con loro, la guerra, la morte, l’oppressione, le malattie e la paura. […] Capaci di prevedere i cicli del tempo, avrebbero, infatti, intuito l’arrivo di un momento nefasto e avrebbero scelto di lasciare il nostro pianeta per non essere distrutti, assicurandosi però, prima di farlo, che ciò che di importante doveva restare, restasse. (7)
Desta tra l’altro una certa curiosità un popolo dotato di navi spaziali, in fuga davanti alla tecnologia militare del Cinquecento…
Il trucco sfruttato in questa occasione si chiama “argomento dell’incredulità”, e si tratta di un’astuzia facile da usare: si presenta una situazione cercando di sottolinearne gli aspetti assurdi, incredibili, anomali; per farlo è spesso sufficiente omettere alcuni dettagli che consentirebbero di chiarirla completamente. Una volta che si è costruito uno scenario di questo tipo, ecco il colpo di fioretto, introdotto dall’espressione incredula: «Non vorrete mica farmi credere che…»
Il mondo dell’esoterismo pop, cui appartiene il genere di Roberto Giacobbo, è infarcito di approcci di questo tipo. Come scrive Andrea Ferrero in un articolo dedicato al complottismo:
L’efficacia retorica dell’argomento dell’incredulità consiste nel sopprimere il secondo termine di paragone. Se mi concentro sugli aspetti poco chiari o poco intuitivi di una teoria posso riuscire a farla apparire poco credibile, specialmente se mi aiuto con descrizioni incomplete e faziose dei fatti. Ma il punto è che qualsiasi teoria diventa poco credibile se viene presentata in questo modo! Quello che dovrei fare per essere obiettivo è confrontare la sua credibilità con quella della teoria concorrente. (8)
Nel caso dei Maya, è sufficiente raccontarne la storia senza omissioni per accorgersi che la straordinaria precisione delle loro conoscenze astronomiche venne raggiunta grazie a uno strumento che oggi utilizziamo sempre meno per osservare le stelle: l’occhio nudo.
È quasi inimmaginabile per l’uomo moderno la quantità di informazioni che si possono raccogliere dalla volta stellata senza far uso di alcun telescopio, armati di tanta pazienza, materiale per prendere appunti e qualche pietra per fissare i punti chiave delle proprie osservazioni. Naturalmente l’intero corpus di conoscenze raccolte dai Maya nell’arco di molti secoli non fu dovuto a un unico studioso, ma al susseguirsi di generazioni di osservatori, ognuno salito simbolicamente sulle spalle dei precedenti; solo in questo modo si può spiegare l’individuazione di periodicità molto lunghe e irregolari. E certamente furono in grado di farlo da soli, senza l’intervento di noi europei (che avremmo scoperto il numero zero soltanto nel XIII secolo, molti anni in ritardo rispetto a loro) né di improbabili omini verdi.
L’ipotesi dei Maya Galattici può utilizzare a suo favore un argomento che fa molta presa durante i documentari televisivi: quello del bassorilievo di Palenque, che riprodurrebbe un uomo a bordo di una navicella spaziale con i motori accesi.
Lasciamo la parola a Roberto Giacobbo:
Al centro della lastra, nota come Lastra di Palenque, è raffigurato un uomo in una strana posizione: le sue mani e i suoi piedi sembrano impegnati a manovrare pedali e manopole, la testa pare essere appoggiata su un supporto, nel naso ha qualcosa dalla forma triangolare che a molti ha ricordato un inalatore. L’uomo è inserito in una struttura molto simile a un razzo; a rendere più marcata la somiglianza con il razzo sono le fiamme chiaramente disegnate sul retro. […] Nel suo libro, Chariots of the Gods, Erich von Däniken, uno scrittore e studioso svizzero, ha avanzato l’ipotesi che la figura enigmatica al centro della lastra rappresenti un essere giunto dallo spazio a bordo della sua astronave. (9)
Suggestivo! Ma si tratta anche questa volta di un trucco, che consiste nell’interpretare un simbolo con gli occhi dell’uomo contemporaneo senza assumere l’ottica di chi lo realizzò.
Poiché il lettore moderno è più abituato a vedere una tanica di benzina piuttosto che il profilo del dio dell’Oltretomba, è facile indurlo in errore mostrandogli questa immagine e suggerendogli la presenza di due contenitori per il carburante a destra e sinistra:
Se invece chiediamo a un esperto di simbologia maya di cosa si tratti, ci risponderà che nel profilo riprodotto si riconosce la maschera ossea scarnificata del dio del sole. Si tratta di una rappresentazione funebre, perché comprende la rappresentazione di una specie di segno percentuale (%) chiamato cimi che è un segno di morte e mostra una mandibola scheletrica per sottolineare il suo legame con l’oltretomba. Ma poiché presenta anche alcune immagini vitali, come il glifo del sole e alcuni motivi floreali, si tratta di un simbolo a metà tra la vita e la morte, che segna l’istante del traghettamento di un defunto verso gli inferi.
Lo stesso esperto potrà guidarci alla scoperta di altri strani simboli che oggi facciamo fatica a riconoscere; quando viene collocata in basso, l’immagine che segue rappresenta l’occidente, il luogo dove muore il sole, e metaforicamente l’ingresso al regno dei morti:
Gli studiosi chiamano questo simbolo “le fauci di Xibalba”, trattandosi di una rappresentazione della porta dell’inframondo, che mostra grandi fauci di cui si riconoscono i denti inferiori.
Un simbolo altrettanto diffuso sulle rappresentazioni maya è quello della croce, che colpì molto l’immaginazione dei conquistadores cristiani.
È rappresentata con una pianta di mais la cui cima tocca il cielo stellato, il tronco si erge nel mondo terrestre mentre le radici affondano nella terra fino a Xibalba, il regno dei morti. Anche detta “albero del mondo”, la croce è il tramite per accedere da un mondo all’altro, una porta di comunicazione tra i vari livelli:
All’asse orizzontale della croce è spesso associato un serpente a due teste:
Si tratta della rappresentazione di una specie di scettro che i sovrani portavano tra le braccia, la cui funzione era quella di rappresentare il cielo, visto che nella lingua maya la parola chan vuol dire sia serpente, sia cielo. L’intreccio sinuoso del serpente, morbidamente appoggiato all’asse, è un simbolo del fluire delle offerte in natura liquida, come il sangue umano o la linfa dell’albero di ceiba.
Il Quetzal, infine, è l’uccello sacro della mitologia mesoamericana:
Si tratta dell’Uccello Celeste, che rappresenta la natura indomabile ricondotta all’ordine dal sovrano. In questa accezione è sempre associato all’albero del mondo, che in effetti si trova subito sotto. Il Quetzal vive in America centrale ed è ricoperto da piume verdi con sfumature blu e nere, a riflessi metallici; ha il petto rosso, il sottocoda completamente bianco e il becco giallo. Poiché le piume della sua coda sono molto lunghe, e possono superare il metro, a destra sono state ripiegate in alto e in basso. Le sue penne venivano usate come elemento decorativo dalle popolazioni locali.
Sovrapponendo l’uno all’altro questi cinque simboli tipici della cultura maya, e collocando alla base dell’albero di mais un uomo in posizione fetale, si ottiene l’immagine riprodotta sulla Lastra di Palenque.
L’uomo è Pakal (603-683), il sovrano sacerdote che regnò a Palenque e che fu sepolto in un mausoleo riccamente decorato, il “Tempio delle Iscrizioni”.
Osservare l’immagine con gli occhi di un antico Maya consente di comprenderne il significato originale; dire che l’uomo è ritratto in un momento del suo viaggio cosmico sarebbe una “mezza verità”: non si tratta, infatti, di una spedizione all’interno di una capsula spaziale, bensì dell’ultimo tragitto verso gli inferi, dove lo attendono i suoi antenati, i cui nomi sono incisi lungo tutto il bordo della lastra. Il sovrano è morto, e sta percorrendo verso il basso l’asse verticale della croce, per raggiungere gli inferi. Il serpente a due teste indica la sua regalità. In alto la scena è dominata da un uccello celestiale che simboleggia il paradiso nell’alto dei cieli. Sotto di lui lo attende l’oltretomba.
L’accostamento di questi simboli era un motivo tipico nelle decorazioni regali; il modo più diffuso per raffigurare il sovrano era quello di vestirlo da “albero del mondo”: imbracciando il serpente a due teste, sorreggeva il cielo, e la sua figura conteneva contemporaneamente riferimenti alla terra, a ciò che sta in alto e a ciò che sta in basso. (10)
Una volta ricostruito il contesto, è più difficile lasciarsi ingannare.
La “de-contestualizzazione” si può ottenere facilmente omettendo alcuni dettagli dello scenario, ed è alla base degli “enigmi del pensiero laterale”: la sfida consiste nel “risolvere” situazioni apparentemente bizzarre, misteriose o impossibili, tali perché il contesto viene amputato di alcuni elementi importanti. Eccone un curioso esempio formulato da Ennio Peres, tra i più noti creatori di enigmi di questo tipo:
PASSI FALSI – Gianni e Pinotto iniziano a pedalare contemporaneamente, uno accanto all’altro. Dopo circa mezz’ora, nonostante nessuno dei due si sia mai allontanato dall’altro, Gianni ha percorso 10 chilometri mentre Pinotto ne ha percorsi solo 8. Come mai? (la soluzione è riportata in nota (11) )
L’atteggiamento più costruttivo con cui leggere i libri di esoterismo pop? Immaginarli come raccolte di enigmi del pensiero laterale: quando è chiaro che gli autori stanno isolando dei particolari senza inserirli nel loro contesto, insistendo sul fatto che una situazione è “misteriosamente misteriosa”, può essere molto divertente provare a “risolvere” gli enigmi presentati come se si trattasse di elaborati indovinelli! (12)
1. Gregorio García, Origen de los Indios de el Nuevo Mundo, e Indias Occidentales, P.P. Mey, Valencia 1607.
2. Genesi 10, 25.
3. Hamon L’Estrange, Americans no Jews or Improbabilities That the Americans are of That Race, Londra, 1651.
4. Thomas Thorowgood, Jews in America or Probabilities That Those Indians are Judaical, Henry Brome, Londra 1660.
5. Fiorella Capuano cit. in Roberto Giacobbo, 2012 la fine del mondo?, Mondadori, Milano 2009, p.36.
6. Roberto Giacobbo, op. cit., p.39.
7. Ibidem.
8. Andrea Ferrero, “L’ID è una teoria? Sì, del complotto”, Scienza & Paranormale, N. 74, luglio/agosto 2007.
9. Roberto Giacobbo, op. cit., pp. 34-35.
10. Giorgio Ferrari, comunicazione privata.
11. Ciò che il testo dell’indovinello non dice è che Gianni e Pinotto si trovano in una palestra e stanno pedalando, a velocità diverse, su due cyclettes affiancate. Ennio Peres, Enigmi geniali, L’Airone Editrice, Roma 2008, pp.74-75 (I ed. 2004).
12. È l’approccio che ho usato nella mia biografia di Gustavo Rol (Mariano Tomatis, ROL Realtà O Leggenda, Avverbi, Roma 2003) in cui, partendo dai racconti dei testimoni oculari dei fenomeni prodotti dal sedicente sensitivo, avanzo qualche ipotesi sul contesto più ampio e sui metodi che gli avrebbero consentito di realizzarli grazie a elaborate tecniche illusionistiche e psicologiche.
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