Quando ero bambino, a intervalli di mezz’ora correvo nel pollaio per vedere se le tre galline avessero fatto l’uovo. Incredibile a dirsi, ogni volta ne trovavo uno. Entuasiasta, correvo a portarlo allo zio. Mezz’ora dopo la scena si ripeteva – e così per tutto il giorno.

Mi spiegai tanta fertilità solo dopo alcuni anni, quando ormai lo zio era morto: da una confidenza di sua moglie, scoprii che era lui a rifornire in segreto la cesta, per rinnovare i miei sospiri di stupore con più frequenza di quanto Madre Natura avrebbe consentito.

Seppure non somigliasse a Silvan – né avesse frequentato la Scuola di Hogwarts (aveva solo la terza elementare) – è difficile per me non considerarlo il più grande Mago della mia infanzia. Ma se fosse ancora vivo e mi leggesse, a un appellativo del genere reagirebbe con scettico cipiglio. E lo capirei.

Fino a ieri il Mago è stato un individuo speciale: un Superuomo dai poteri irresistibili, che gli consentono di elevarsi sopra i simili. Segando e ricomponendo donne, mostra di dominare la vita e la morte. Liberandosi da ogni costrizione, di poter sfidare gli dèi come Prometeo. Soggiogando con la fascinazione ipnotica, di essere una preziosa risorsa in un sistema markettaro/capitalistico.

No, non riconosco lo zio in questo ritratto. La sua era una magia più intima e schiva. Una disciplina di cui Samuel Sharpe colse il cuore, scrivendo:

Scopo ultimo della magia non è ingannare il prossimo ma incoraggiare un approccio verso la vita e il cosmo pieno di meraviglia. (1) 

E se fosse giunta l’ora di ridefinire il concetto di Magia? Di abbattere le pareti dei teatri e consentirle di invadere il mondo? Di restituirla alla gente comune per incoraggiare nuove storie e nuovi stupori?

È lo spirito con cui io e Ferdinando Buscema abbiamo scritto L’arte di stupire: il primo libro di magia rivolto a tutti. Non c’è bisogno di un palcoscenico (o di un piedistallo) per reincantare il mondo – al contrario: ci si deve sporcare le suole con il fango di un pollaio.

Farlo non è difficile. Basta accorgersi che il mondo non funziona e volersi impegnare ad aggiustarlo. Se la vocazione più preziosa della magia è quella di fare “hacking” della realtà, diventare maghi nel quotidiano non è soltanto possibile: è necessario.

L’esistenza di una Magia mainstream che fa dell’ombelico il proprio orizzonte non deve scoraggiare. Alla storia dominante che arriva dai palcoscenici possiamo opporre mille altre narrazioni dal basso. Perché, come ripetono da sempre i Wu Ming,

l’unica alternativa per non subire una storia è raccontare mille storie diverse.


Note

1. Samuel Henry Sharpe, Art and Magic, The Miracle Factory, Los Angeles (California) 2003, p. 183.

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