Come previsto due anni fa da Wu Ming sulle pagine di GQ, la scomparsa politica di Silvio Berlusconi ha spalancato le porte per il ritorno in Italia di Uri Geller. L’israeliano ha da poco annunciato la propria partecipazione a uno show televisivo che verrà registrato a Roma in primavera. Sulla scia delle sue ultime produzioni, dovrebbe trattarsi di un talent show (dedicato ai giovani mentalisti?). Il recente successo di Federico Soldati a Italia’s Got Talent fa comunque rilevare un rinnovato interesse della televisione italiana per i poteri della mente.
Nel corso della sua tournée italiana, Geller farà sosta a Saint Vincent (AO) per partecipare – in qualità di ospite d’onore – al Congresso Masters of Magic 2012, il raduno annuale di prestigiatori organizzato da Walter Rolfo. Quattro anni fa Uri Geller si era trovato in una situazione simile, partecipando a Londra all’International Magic Convention 2008. Qui non si era sottratto alle domande dei mentalisti presenti, parlando dell’evoluzione del suo personaggio da quando – negli anni Settanta – si dichiarava “sensitivo”:
Se dovessi iniziare oggi la mia carriera, la velocità di Internet e la diffusione delle informazioni resa possibile dalla tecnologia mi distruggerebbero. Oggi non potrei iniziare la mia carriera come feci tanti anni fa.
Negli scorsi decenni Uri Geller è stato al centro di aspre controversie scientifiche, che si concentravano sulla natura delle sue capacità. Dovute a trucchi da prestigiatore o a doti parapsicologiche particolarmente sviluppate? Alla domanda diretta sull’argomento, di fronte agli illusionisti Geller aveva risposto nella logica del markettaro:
Se mi guardo indietro, devo dire che le polemiche mi hanno tenuto in vita: mi sono definito un “sensitivo”, e oggi devo costantemente reinventarmi, dunque non vi darò una risposta diretta. Devo proteggere i concorrenti della mia trasmissione, glielo devo, e non voglio sapere come fanno a fare quello che fanno; voglio solo assistere alle cose più incredibili che si possano fare.
A sostenere in buona fede l’autenticità dei suoi poteri sono rimasti in pochi, e sull’argomento si confrontano ancora oggi il Cicap e alcuni sostenitori del paranormale. Nel sottobosco dei prestigiatori, invece, l’aspetto più discusso è quello dell’etica del mentalismo e dei confini di tale disciplina. Quale contesto narrativo è lecito offrire agli effetti di mentalismo?
L’argomento è controverso. James Randi, il più strenuo oppositore di Geller, ritiene semplicemente che Geller sia un bugiardo; commentando la partecipazione di Geller al congresso magico inglese, Randi aveva detto:
[Uri Geller] negli anni ha ripetuto molte, molte volte: «Non sono un mago, non conosco i trucchi, non uso i trucchi.» Beh, questa è una bugia. È così: i maghi non dicono le bugie. I maghi ingannano, ma ingannano allo scopo di divertire.
Introdurre una presunta distinzione semantica tra “bugia” e “inganno”, però, mi pare fuorviante. Il problema riguarda, piuttosto, i confini del palcoscenico. Nel contesto di un’esibizione, qualunque narrativa è concessa: una carta può essere indovinata grazie alla lettura dei segni del corpo, alla bacchetta magica di Harry Potter o all’intervento dell’arcangelo Gabriele. Alla fine di uno spettacolo, parte del pubblico può restare agganciato allo scenario narrativo proposto e attribuirgli una realtà anche al di fuori del teatro. Capita a tanti mentalisti moderni di essere interrogati sulla possibilità di utilizzare nel quotidiano le capacità dimostrate sul palcoscenico.
Prendiamo l’affermazione “Indovino la carta che stai pensando grazie all’attenta lettura del tuo corpo”. L’aspetto chiave della faccenda è che la stessa frase, pronunciata sopra e fuori dal palco, solleva problemi etici completamente diversi.
Se è vero che stupore e meraviglia sono emozioni che non ci si può indurre da soli, i prestigiatori possono essere una fonte di stimoli sorprendenti e paradossali: il loro ruolo di guide ai confini del possibile è insostituibile. Entrando in relazione con un mago, al tavolo di un ristorante o nel buio di un teatro, ci si predispone a un viaggio verso regioni dove la razionalità è messa a dura prova e le nostre aspettative sulla realtà vengono completamente stravolte. Le bugie che ci vengono propinate sono la piccola dose di veleno che accettiamo consapevolmente come prezzo per il viaggio. Tornando alla vita quotidiana, riprendiamo contatto con le regole che la definiscono e torniamo a difenderci dalle bugie e dagli inganni, controllando il resto alla cassa di un bar, leggendo per bene i punti di un contratto e verificando con scetticismo la proposta di un venditore di auto usate.
Il politico che nega la crisi per evitare rivolte sociali. Il commerciante che dichiara un decimo del suo reddito. Il concessionario che nasconde i problemi al motore di un’utilitaria di seconda mano. L’ecologista che distorce i risultati di un’indagine per sostenere le proprie posizioni ambientaliste. Il mentalista che si vanta di distinguere il vero dal falso dalla direzione dello sguardo di un individuo. Fuori dal palcoscenico, ritengo tali comportamenti ugualmente riprovevoli.
Sul rapporto tra verità e bugia nell’ambito della comunicazione ho letto recentemente Democrazia: cosa può fare uno scrittore? di Antonio Pascale e Luca Rastello. Secondo gli autori,
la parola, veicolo di conoscenza e informazione, sembra oggi aver perso il proprio potenziale critico e analitico, e la sua fondamentale funzione di sprone e stimolo. […] l’informazione giornalistica e la televisione l’hanno ridotta a puro strumento retorico, volto a creare consenso oppure a offrire slogan consolatori e di facile presa. Lo scrittore – sia egli letterato, giornalista o divulgatore – può ancora contribuire alla crescita di una coscienza democratica diffusa e matura?
La consapevole e attenta distorsione della “parola” da parte dei mentalisti è continua nel corso dei loro spettacoli. Nei giorni scorsi ho partecipato a un seminario di Paul Voodini, psychic entertainer e talentuoso insegnante di tecniche di evocazione di scenari irrazionali: senza far uso di alcun trucco di natura fisica, il mentalista inglese propone un intrattenimento fatto di esperimenti i cui risultati – sempre spiegabili in termini di casualità – vengono regolarmente manipolati attraverso la scelta di parole accurate, di narrative suggestive e interpretazioni statistiche fallaci dei numeri in gioco. Tale tendenziosità mira alla creazione di un’atmosfera teatrale di grande impatto emotivo e può guadagnare al mentalista un successo strepitoso. Certamente in uno spettatore poco avveduto può lasciare tracce di sé ben oltre la fine dell’esibizione, come può accadere anche con trasmissioni televisive o esperienze teatrali altrettanto emotivamente coinvolgenti, e il tema della responsabilità di un artista sui sistemi di credenze individuali è materia controversa.
Il problema è che tecniche di questa natura sono quotidianamente usate da altre categorie di persone estranee all’illusionismo, fuori dal palcoscenico e per scopi molto meno nobili; per la loro chirurgica e consapevole accuratezza, si tratta di espressioni di una raffinata ingegneria dell’inganno, facili da riconoscere nel mondo “laico”: nell’evocazione di spettri da parte dei movimenti razzisti, incarnati nelle figure del rumeno-stupratore o dello zingaro-rapitore; nella distorsione delle cifre nei dibattiti sul riscaldamento globale, sull’Alta Velocità o sulle diverse proposte economiche; nei discorsi retorici e populisti dei politici, impegnati più nella costruzione di narrative credibili che non nel prendersi a cuore i problemi degli elettori.
Prevengo la banale considerazione secondo cui vale l’uso che se ne fa. Adoro il mentalismo e ritengo che l’efficacia delle sue tecniche retoriche e persuasive sia un tema di enorme fascino, filosofico e scientifico, e che un’analisi esaustiva delle sue metodologie dovrebbe andare di pari passo a una riflessione più generale su cosa siano l’uomo, la coscienza e l’intelligenza; ritengo, anzi, che proprio in queste implicazioni risieda il suo potenziale. Ma se come intrattenitore posso essere tentato di gratificare il mio ego, facendomi attribuire capacità che non possiedo ed esigendo un consenso fondato su un inganno che si perpetua anche fuori dal palcoscenico, come divulgatore non posso allinearmi a tale consuetudine.
Da parte mia non si tratta soltanto di scegliere un’audience diversa da quella che frequenta i teatri dei mentalisti, né di sottrarre fascino all’atmosfera che si crea in teatro al cospetto di un bravo performer. Si tratta, piuttosto, di indicare in modo chiaro il confine tra palcoscenico e realtà. Mi ha preoccupato, qualche tempo fa, la reazione di uno psicologo pronto a investire tempo ed energie intellettuali per portare, all’interno del rapporto terapeutico con i pazienti, le presunte “tecniche” di cui era stato testimone durante lo spettacolo di un mentalista. Conoscendo la natura del metodo usato dal performer, ero consapevole di quanto sarebbe stata sterile (e deludente) qualsiasi ricerca lungo quella direzione. Eppure il potere persuasivo dello show aveva avuto effetti prolungati ben oltre la sua fine, instradando un serio professionista verso una strada senza sbocchi.
Molto del mentalismo contemporaneo costruisce la propria credibilità sulla retorica dei poteri inespressi – chi non si sente gratificato all’idea che in tutti noi ci sia un potenziale latente? – e sull’ipersemplificazione del mondo e dei modelli psicologici. Verità e bugia, nella realtà correlati a tanti e tali fattori da essere indistinguibili anche alle tecnologie più sofisticate, diventano accessibili attraverso i movimenti degli occhi e del capo. I pensieri, nelle loro infinite sfumature, vengono ridotti (e percepiti) alle loro componenti fonetiche e indovinati una lettera alla volta. Tutto ciò funziona meravigliosamente sul palcoscenico, inducendo una spontanea sospensione dell’incredulità, ma sarebbe del tutto fuorviante nella vita di tutti i giorni. Il mio ruolo come scrittore è quello di ricondurre alla complessità e rieducare alle sfumature, al punto di rischiare l’impopolarità, contrapponendo alle dimostrazioni muscolari di poteri psichici un più sommesso elogio alla melanconia e ai limiti della natura umana. Perché, come scrive Eric Wilson,
L’esaltazione di non conoscere mai del tutto qualcosa è la libertà di immaginare in perpetuo il sublime al di là della ragione.
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