Tra ottobre e dicembre 1901 la rivista Magic pubblicò in tre puntate questo articolo di Frank W. Thomas intitolato “Le confessioni di un prestigiatore”. I tre articoli sono accessibili nella Biblioteca Magica del Popolo e qui di seguito in traduzione.
Credo che tutti abbiate avuto modo di assistere a qualche spettacolo di magia, ma pochi sanno quale divertimento il pubblico che vi assiste possa fornire al prestigiatore stesso.
Il prestigiatore si allena a essere un osservatore critico. Deve saper distinguere al volo la timida spettatrice che prenderà la carta giusta dal ragazzino pestifero che cercherà in ogni modo di prendere quella sbagliata.
A un osservatore del genere, nulla è più interessante di studiare i modi diversi in cui occhi differenti vedono la stessa cosa e notare la continua manifestazione della sorprendente credulità umana che porta perfino le persone più brillanti a credere a delle assurdità. Spettatori provenienti dalle classi più alte prendono sul serio affermazioni che avrebbero fatto ridere se pronunciate all’epoca della stregoneria. Arrivano addirittura ad attribuire dei poteri all’esecutore che egli non avrebbe mai osato attribuirsi. Sembra proprio che molte persone vivano con la presunzione di essere infallibili, al punto che preferiscono ritenere un autentico miracolo quello che in realtà è solo un trucco piuttosto che ammettere, anche a loro stessi, di poter essere stati ingannati con tanta facilità.
Ed è singolare, sebbene assolutamente vero, che il pubblico più difficile da ingannare è composto dai ragazzini, mentre un gruppo di scienziati che investigano i fenomeni dello spiritismo e delle apparizioni di messaggi su lavagnette sono forse il pubblico più facile. Il bambino trabocca di sano scetticismo. Tiene gli occhi aperti e dice: «Eh già! Ce l’avevi nell’altra mano!» L’uomo di cultura, con gli occhi socchiusi dalla sua conoscenza di molte altre meraviglie, perde di vista il filo nero che muove la mano spiritica e dice: «Meraviglioso!» Le esagerazioni cui indulgono molte onestissime persone nel raccontare i giochi cui hanno assistito è motivo di grandissimo divertimento per i prestigiatori. Se un giudice potesse avere l’esperienza di un prestigiatore, perderebbe tutta la sua fiducia nel valore della testimonianza umana.
Un giorno uno dei più abili avvocati che io conosca era seduto a tavola, e spiegava a un nostro amico comune un gioco che gli avevo mostrato un mese prima nel suo ufficio. Mi ero dimenticato dell’episodio, e fu del tutto impossibile da parte mia riconoscere il gioco che lui stava cercando di descrivere. Accade spesso che sentiamo raccontare o leggiamo di miracoli che non sono mai accaduti.
Si racconta anche la storia di un integerrimo sceriffo della contea del Michigan, che in un’occasione stava scortando un prigioniero in carrozza da un paese all’altro. Il detenuto gli chiese se avesse mai visto qualcuno in grado di svolgere una corda per aria e arrampicarvisi sopra. Lo sceriffo rispose di no, ma giurò di aver poi assistito a questo fatto straordinario: il furfante tirò fuori dalla tasca una corda, e stringendo un capo lanciò l’altro per aria. Immediatamente iniziò ad arrampicarsi su per la corda fino a sparire dalla vista. Il prigioniero non è mai tornato indietro a confermare o confutare il racconto.
La tendenza a essere inaccurati nell’osservazione viene sfruttata a fondo dai prestigiatori e dai medium più abili per aumentare l’effetto dei propri trucchi. Un buon esempio viene dal celebre trucco dell’orologio, che funziona così: il prestigiatore fa scegliere al pubblico una carta, inizia a far ruotare le lancette dell’orologio, e dopo averle girate a dovere chiede allo spettatore che ha preso la carta di nominare il suo valore. Poniamo che la risposta sia “cinque”. L’orologio viene voltato e si trova sulle cinque. Questo gioco viene ripetuto tre volte, e ogni volta il prestigiatore fa ruotare le lancette prima di chiedere il valore della carta, e ogni volta il numero su cui si ferma corrisponde a quello della carta. Alla fine, un assistente viene mandato tra il pubblico con un bussolotto e un dado. Uno spettatore viene invitato a lanciare il dado, al che il prestigiatore chiede: “Che numero è venuto?”. Appena lo spettatore risponde, la mano si allontana dall’orologio e di nuovo indica il numero esatto. Ora, è facile accorgersi che in quest’ultima situazione la mano si allontana dall’orologio solo dopo che lo spettatore ha nominato il valore su cui è caduto il dado. Nonostante ciò, al normale osservatore sembrerà che la mani si sia allontanata dall’orologio ben prima, e questo perché nella sua mente si è fissata la sequenza di eventi accaduta in precedenza con le tre carte. Il prestigiatore, grazie a una preparazione precedente, sa quale carta viene ogni volta estratta, per cui può impostare l’orologio prima di chiedere al pubblico il valore delle carte. Non può invece sapere come cadrà il dado, ma farà credere di saperlo, o almeno farà credere che l’orologio spiritico lo sappia, e questo pensiero si fisserà nello spettatore. Ricordo un signore che era seduto accanto a me durante uno spettacolo in cui veniva presentato questo trucco. Pur conoscendo abbastanza bene le tecniche dei prestigiatori, era convinto che il dado fosse truccato, perché – diceva – «La mano si è allontanata dall’orologio prima che il prestigiatore chiedesse quale faccia fosse comparsa, dunque doveva sapere in anticipo il valore che sarebbe uscito.» Ora, ipotizzare che il dado fosse truccato manca completamente il bersaglio, né è necessario avanzare un’ipotesi del genere; ma nessun argomento poté convincere il mio amico dell’errore che aveva commesso. Non l’aveva visto con i suoi stessi occhi? Humpfh! Si sentiva insultato.
I più grandi miracoli mai avvenuti non sono (appunto) mai avvenuti. È solo il pubblico a essere convinto di avervi assistito. Ma è un’arte riuscire a convincerli di questo.
Si racconta che Robert-Houdin, il grande prestigiatore francese dei tempi che furono, fosse così abile nel manipolare le carte da gioco che era in grado di presentare con successo il trucco del mazzo che si rimpicciolisce fino a farlo sparire; il fatto è che lui utilizzava un mazzo di carte ordinario, mentre la maggior parte dei prestigiatori ne usa uno truccato all’occorrenza. Per ogni riduzione successiva Houdin mostrava il mazzo in un modo diverso, assicurando al pubblico che le carte stavano realmente rimpicciolendo, e il pubblico ci credeva davvero.
È ormai un argomento trito e ritrito quello per cui la mano sarebbe più veloce dell’occhio, ma è del tutto sbagliato. È vero che la mano può essere allenata da una continua pratica a eseguire complicati movimenti che un occhio non abituato ha difficoltà a seguire in tutte le sue fasi, ma l’occhio è comunque molto più veloce, come sa fin troppo bene qualsiasi prestigiatore. Un movimento molto rapido in genere confonde lo spettatore, ma si vede sempre, anche se non chiaramente, per cui fa sorgere un sospetto che in molti casi porta all’individuazione del trucco utilizzato. La manipolazione perfetta è esplicita, e permette all’occhio di seguirla con facilità; l’inganno sta nel fatto che viene eseguita senza fretta e accompagnata da movimenti del tutto – all’apparenza – naturali. Confondere la gente non è difficile, più complicato è nascondere ciò che si fa e nello stesso tempo dare l’impressione di fare qualcosa di completamente diverso: questo richiede grande abilità, impegno e continua pratica.
Probabilmente chi non ha mai studiato questo affascinante mondo non può apprezzare il dettagliatissimo impianto teorico che fa da sfondo a un trucco e la cura minuziosa che si deve avere per realizzarlo. Si deve convincere il pubblico di aver visto e controllato tutto, anche se spesso ci sono cose che non deve vedere. Impedire loro di vedere queste cose e nonostante ciò far credere loro di averle viste richiede un’abilità grandissima.
Alexander Herrmann era un grandissimo manipolatore del pubblico. Quando lo vidi in azione mi convinsi del fatto che chi assisteva ai suoi spettacoli, perdeva gran parte delle cose che faceva. Lo si vedeva invitare alcuni spettatori a raggiungerlo sul palco, e apparentemente faceva sì che costoro controllassero ogni piccolo dettaglio, e lo faceva con quell’eleganza che ha fatto di lui un artista inimitabile. A questo punto era in grado comunque di ingannarli. Lo vidi una volta condurre alcuni spettatori a un passo dallo scoprire il trucco, e improvvisamente portare altrove il loro sguardo con un semplice movimento della mano o con una piccola pacca. Per il pubblico, che non aveva cognizione del rischio che stava correndo Herrmann, tutto sembrava semplice; ma io, che conoscevo il rischio che stava correndo, riconobbi in quel gesto un atto di grandissima fiducia nelle proprie capacità e una dimostrazione di sangue freddo straordinaria. Se qualcuno degli spettatori intuiva qualcosa e sembrava dare l’impressione di volere divulgare questo segreto, una delle tecniche di Herrmann consisteva nel prenderlo per il naso mostrandogli quel gioco in cui si fanno apparire le carte dalla faccia dello spettatore, e contemporaneamente gli dava un forte pizzicotto.
La manipolazione in sé viene giudicata, anche dal pubblico più intelligente, come una semplice abilità giocolatoria. Se, però, tale manipolazione è inserita in un più ampio racconto misticheggiante, con un aspetto vagamente e genuinamente occulto, allora gran parte delle persone sono portati a credere che sia il prodotto di facoltà sovrannaturali.
Un episodio che mi capitò tempo fa illustra molto bene questo punto. Nell’inverno del 1896 la Lega Americana dei Trasportatori aveva organizzato l’annuale convention nella città di Baltimora. In quest’occasione le città di Louisville e Toledo avanzarono entrambe la candidatura per ospitare l’incontro nell’anno successivo. Ogni città mandò un gruppo di cittadini in una speciale automobile per presentare le proprie proposte. Entrambe le delegazioni si sistemarono in un hotel, in attesa dell’incontro con gli organizzatori.
Magic, Vol. 2, N. 1, Pollock & co., London, ottobre 1901.
La delegazione di Toledo, pensò di poter offrire un programma più ricco di intrattenimenti rispetto a Louisville, e formulò la proposta di accompagnare i due giorni della convention con una serie di spettacoli di giochi di prestigio. In questo modo gli organizzatori, che arrivarono un po’ alla volta, rimasero affascinati da questo spettacolo continuo, e mentre si trovavano sotto l’incantesimo dei giochi di prestigio, nel frattempo uno di loro passava tra il pubblico offrendo loro con una mano un sigaro; con l’altra mano, invece, batteva sulla loro spalla, dicendo di votare per Toledo.
Fu in questa occasione che io e il mio amico George W. Stevens fummo coinvolti in una delle più interessanti esperienze come intrattenitori. Ci vestimmo e truccammo come due negromanti orientali Indù. Ci impegnammo a fondo nel trucco, e fummo presentati come autentici discendenti regali Indù, molto celebri in patria. Le stanze degli ospiti vennero addobbate in stile orientale, le tende decorate e furono accese tutte le luci (anche di giorno) per aggiungere genuinità all’inganno.
I nostri personaggi sembravano così reali che i giornali di Baltimora dedicarono ampio spazio a un’accurata descrizione dei “maghi giunti dall’oriente”. Fu proprio questa perfetta serietà di fondo che ci permise di vivere un’esperienza molto interessante.
Oltre che dai delegati, fummo visitati anche da molti cittadini di Baltimora che credevano nel misticismo orientale. La grande facilità con cui molti di costoro accettavano le storie più assurde ci spinse a inventarne di così incredibili che avrebbero fatto rivoltare Anania nella tomba.
A un vecchio signore Na Saab (Stevens) disse solennemente che Ka Noor, il suo “fratella”, aveva vissuto in letargo in una caverna, con la lingua tagliata, per ottocento anni, per raggiungere la condizione ottimale per produrre delle autentiche meraviglie. Vedere l’interesse con cui il signore ascoltava e la serietà con cui Na Saab pronunciava le più grandi assurdità fu davvero troppo per me, e dovetti nascondermi dietro un pannello che si trovava verso la fine del palco. Qui scoppiai a ridere. Nessuno al di fuori di Na Saab sarebbe riuscito a restare serio di fronte al signore che rispondeva serafico: «Eh, sì! Solo che io e lei queste cose le sappiamo; il problema è che qui in America nessuno è in grado di capire dei concetti così profondi!»
Diversi prestigiatori locali ci raggiunsero e, in privato, ci chiesero di insegnare loro qualche trucco, che fossimo o meno Indù. A ognuna di queste richieste rispondevamo sempre «Sappiama parlara Italia molta bena.» Questo, ripetuto più volte, con un occhio di stolida indifferenza orientale, riusciva a far spazientire anche il più paziente dei nostri interlocutori. Alcuni di questi prestigiatori addirittura cercavano di coglierci di sorpresa durante le nostre esibizioni per svelare i nostri trucchi.
Ma se c’è una cosa che diverte un mago è di ingannarne un altro…
Per un gioco con le carte, che presentammo molte volte in quei due giorni, utilizzavo un asso di picche truccato. Anticipando di poco i prestigiatori alle prime armi, quando il gioco terminava appoggiavo il mazzo di carte sul ripiano del camino dietro di me, liberandomi al contempo dell’asso truccato e sostituendolo, in cima al mazzo, con un altro non truccato. Dal momento che il ripiano era in posizione più alta rispetto agli occhi del pubblico, lo scambio era invisibile, e il fatto di appoggiare il mazzo sembrava un gesto innocente. Un ragazzino si fermò a osservare il trucco più e più volte mentre lo presentavo a diversi gruppi di delegati. Alla fine mi raggiunse e mi chiese di controllare le carte. «Ma certamante; sogna molta contenta di mostrar mia carta a un signora americana» dissi nel mio perfetto dialetto Indù, e gli consegnai il mazzo prendendolo dal ripiano. Dal modo in cui manipolava le carte capii subito trattarsi di un prestigiatore, e da come lo guardavano i presenti intuii che doveva anche essere abbastanza famoso. Fu interessante vedere l’espressione del suo viso cambiare da una fiduciosa esultanza a una totale sconfitta, quando si accorse che le carte erano effettivamente normali e resistevano a qualsiasi controllo, l’asso di picche in particolare. Quando restituì il mazzo, Na Saab gli disse: «Veda, la magica Orientalia fa sola giochi perfetta; non trucca come americana prestigia.»
La folla sorrise, il ragazzo si allontanò in mezzo alle voci dei “creduloni” che dicevano: «Te l’avevamo detto», e Na Saab mi diede un pizzicotto sul braccio.
I racconti delle nostre imprese giunsero alle orecchie di alcune ospiti dell’hotel che ci invitarono a intrattenerle per qualche tempo. Ci divertimmo molto nel vedere che alcune si rifiutavano di prendere in mano alcuni oggetti per controllarli: avevano paura perché tali oggetti erano stati nelle nostre mani.
Pranzammo in una piccola sala privata, e ci divertimmo moltissimo a vedere con quale cura venivamo trattati dai camerieri di colore che servivano. Uno chiese a Na Saab se fosse sposato. E quando lui rispose: «Noa, ma mio fratella ha venta donna a Calcutta», vedemmo gli occhi del cameriere illuminarsi.
Il proprietario dell’albergo ci raggiunse l’ultimo giorno e ci chiese di mostrargli qualche trucco. Gliene mostrammo alcuni, ma poi ci fermammo dicendo che non avremmo continuato finché non ci avesse procurato un sigaro. Quando ce lo diede, lo mettemmo insieme ai moltissimi altri che già ci eravamo procurati dai delegati, che si divertivano tanto a scommettere un sigaro sul fatto che non saremmo riusciti a eseguire un certo effetto. Ogni volta che perdevano, chiamavano qualche loro amico e invitavano anche lui a scommettere. Un uomo che viene ingannato ha sempre bisogno di compagnia.
Facemmo dunque ancora un gioco al proprietario dell’albergo, e quella stessa sera, dopo esserci tolti il trucco ed esserci cambiati d’abito, tornammo gli americani di sempre. Quando io e Stevens tornammo alla reception dell’albergo, dissi al proprietario: “Ottimo il sigaro che ci ha dato oggi”. Lui si girò verso di me con uno sguardo freddo e irriconoscibile, dicendo: «Vi domando scusa, signore, ma non vi ho dato alcun sigaro.» «Mi scusi, guardi che ce l’ha dato» risposi io. «Bene, scommetto un sigaro di non avervi dato alcun sigaro oggi,» replicò. Al che dovetti soltanto dirgli: «Damma una sigara, vah…» che lui me ne allungò uno rispondendomi: «Mi avete fregato!»
Un’esperienza del genere è materia per filosofi. Esistono anche gli scettici, ma i creduloni sono innumerevoli.
A volte la serietà con cui vengono presi gli scherzi dei prestigiatori crea situazioni molto divertenti. Durante un’esibizione, dopo aver mostrato diversi esperimenti di telepatia, chiesi al pubblico di eleggere uno spettatore che scrivesse una breve frase di sei-sette parole. Dopo averla scritta, avrebbe dovuto concentrarsi sulla stessa, una parola alla volta, e guardarmi intensamente negli occhi tenendo il suo capo assolutamente parallelo al mio, in modo che le onde cerebrali del mio e del suo cervello viaggiassero in sintonia; nel frattempo io avrei scritto su una lavagnetta esattamente le stesse parole.
La persona scelta fu il preside della scuola pubblica locale, e per qualche ragione si trovò in difficoltà nel pensare alla frase da scrivere. Dopo una considerevole attesa, tuttavia, la frase fu scritta; si alzò in piedi e si mise in posizione con la testa parallela alla mia, mentre io scrivevo rapidamente sul lato della lavagnetta nascosto alla vista degli spettatori. Gli fu dunque chiesto di leggere quanto avesse scritto, e quando lo avesse fatto io avrei girato la lavagnetta in modo che tutti potessero constatare che avevo scritto esattamente le stesse parole. Era un uomo che certamente si prendeva molto sul serio. Sempre in piedi, con un atteggiamento di grande superiorità, lesse la frase con il tono di un oratore: “Trecento spartani perirono alle Termopili”. Dopo questo supremo sforzo, potete immaginare l’imbarazzo e il divertimento del pubblico quando lessero sulla mia lavagnetta le parole “ESATTAMENTE LE STESSE PAROLE”.
L’uso di complici tra il pubblico è molto meno diffuso di quanto si creda; in effetti è stato quasi abbandonato. Altrettanto raramente un prestigiatore incontra un complice improvvisato. Come regola, infatti, il pubblico si sente in competizione con il prestigiatore. Una volta, tuttavia, un assoluto estraneo con una prontezza di spirito rara a trovarsi, mi venne volontariamente in aiuto in modo così geniale da avere tutt’oggi la mia più grande gratitudine e stima. Un complice con cui mi fossi messo d’accordo in precedenza non sarebbe stato in grado di agire così bene, e gli bastò un istante per farsi venire l’idea giusta. L’episodio accadde durante una festa molto informale offerta da lui e sua moglie ai parenti. Durante la serata, dopo aver presentato una serie di test telepatici con delle carte da gioco, dissi a uno degli ospiti che, essendo un dottore e per di più molto interessato ai fenomeni psichici, sembrava particolarmente sensibile alle onde telepatiche, dunque avrei provato con lui a eseguire l’esperimento della lettura del numero di serie del suo orologio. Prese dunque l’orologio dal suo taschino e si concentrò sul numero, una cifra alla volta, e ogni volta la nominavo, senza dimenticarmi di sbagliare qui e là qualcosa e mostrando grande sforzo psichico per eseguire il compito; non è saggio presentare un trucco in modo che sembri eccessivamente facile.
Magic, Vol. 2, N. 2, Pollock & co., London, novembre 1901.
In una situazione normale questa sarebbe stata la fine del gioco, ma in questo caso un ragazzo, seduto accanto al dottore, mi sfidò immediatamente a leggere il numero del suo orologio, accusandomi di aver in qualche modo letto il numero del dottore in anticipo, senza che nessuno se ne accorgesse. Era uno scettico della linea dura, e non intendeva credere a nulla che non fosse provato oltre ogni dubbio.
Il numero di serie del suo orologio mi era totalmente sconosciuto, ma nessun prestigiatore con un po’ di spirito “magico” si sarebbe arreso così presto, perché le possibilità di venirne fuori c’erano, anche se infinitesime.
Era evidente che fallire nella lettura significava ammettere che l’esperimento di prima era truccato e dargli la soddisfazione di avermi sconfitto. La mia situazione non poteva essere più disperata, ma c’era una possibilità su nove di ingannarlo con un bluff. Assunsi un atteggiamento compiacente, e fissandolo direttamente negli occhi gli risposi: “Scommetto dieci dollari che sarò in grado di leggere la prima cifra del tuo orologio senza che tu neanche lo estragga dal taschino”. La sicurezza con cui pronunciai questa frase lo innervosì moltissimo. Mi disse che non avrebbe scommesso, ma che sapeva che non sarei stato in grado di farlo. A questo punto non mi rimaneva altro da fare che non tirare a sorte una cifra e provare a indovinarla, perché tirarmi indietro nonostante il suo rifiuto sarebbe stato la stessa cosa che ammettere che stavo bluffando.
La prima cifra non poteva essere uno zero, dunque avevo una possibilità su nove di indovinare, e nonostante la maggior parte degli orologi americani abbiano numeri di svariati milioni, pochi – se ce ne sono – hanno numeri superiori ai cinque o sei milioni. Tentai con il tre, più o meno una media, e indovinai. Non potevo credere di aver avuto tutta questa fortuna. Ma il testardo ragazzo non era ancora soddisfatto. Aveva una mente analitica molto ben allenata, per cui poté valutare facilmente le probabilità che avevo di indovinare, e disse che si trattava solo di un caso fortunato. «Ma – disse – se sei stato fortunato con la prima cifra, è assolutamente impossibile che tu indovini anche la seconda.» Aveva perfettamente ragione. La situazione cominciava a diventare pesantuccia.
Proprio in questo momento critico, il dottore, seduto accanto al ragazzo con una mano dietro costui, allungò una mano sollevando quattro dita in modo che le potessi vedere. Anche le cifre restanti furono facili da indovinare. Lo scettico tirò dunque fuori delle monete e delle banconote in modo che indovinassi date e numeri di serie. Tutto quello che mi teneva nascosto era come un libro aperto per me, dal momento che il dottore osservava ogni volta la cifra da trasmettermi e me la segnalava con le dita.
Al termine della serata il ragazzo mi prese da parte e mi chiese scusa per avermi preso in giro durante lo spettacolo, ammettendo di aver assistito davvero a qualcosa di straordinario. Non capì mai come avevo fatto, e probabilmente cercò di convincere altri dell’esistenza di onde telepatiche, descrivendo questo episodio che aveva vissuto in prima persona.
Una volta, di fronte a un grosso pubblico, feci passare cinque mezzi dollari, che si trovavano nelle mani di un signore, nelle mani di un altro signore che ne aveva otto. Le cinque monete lasciarono effettivamente la mano del primo signore, ma il secondo se ne trovò nove invece che tredici. Non avere lì per lì un rimedio che mi salvasse significava fallire miseramente tutto il gioco. Il problema era sorto a causa di un difetto meccanico in un vassoio che utilizzavo per fare il gioco. Il vassoio aveva un doppio fondo nel quale si trovavano cinque dollari aggiuntivi, che avrebbero dovuto uscire segretamente e finire nella mano dello spettatore che ne aveva otto in mano. Solo uno ne saltò fuori, e gli altri quattro rimasero all’interno. Per risolvere il problema, in tutta velocità impalmai segretamente quattro delle monete che lo spettatore aveva appoggiato al piatto, e lo accusai simpaticamente di averle scippate, estraendole una alla volta dai suoi baffi. Il pubblico si divertì molto, e credette che si trattasse di una parte del gioco.
Recuperare un gioco, comunque, non è sempre così facile. Una volta stavo facendo uno spettacolo di fronte a diverse centinaia di marinai, e avevo preparato un gioco che consisteva nella materializzazione di un teschio. Il gioco era preceduto da un racconto abbastanza complesso, che terminava con la scoperta di un teschio; un fallimento avrebbe reso il tutto molto ridicolo. Dissi al pubblico con grande serietà che sulle montagne indiane esisteva una tribù di nativi chiamati Sirpatru Bhils, tra i quali, da duemila anni, vivevano alcuni maghi Indù. Questi maghi vivevano in caverne, e grazie a particolari rituali erano in grado di prolungare la propria esistenza anche per secoli. I loro teschi erano custoditi con devozione religiosa dai Sirpatru Bhils. Sarebbero stati disposti a fare sacrifici umani per averne uno.
Dissi che ero riuscito a procurarmene uno dopo un’avventura terrificante con la tribù. Il teschio era abitato dallo spirito di un mago chiamato Ghoolab Shan, che era vissuto per novecento ottant’anni, e che era quasi giunto all’immortalità. Il teschio aveva la particolare caratteristica di poter apparire e sparire a piacere. La materializzazione, però, non poteva avvenire di fronte agli occhi di tutti, ma sotto la protezione di un fazzoletto. Presi un grosso fazzoletto dalla mia tasca, lo mostrai vuoto e, senza alcun movimento strano, lo tenni all’altezza del braccio e materializzai un teschio dietro di lui.
Per spiegare quello che accadde devo rivelarvi che il teschio, proveniente in effetti da un obitorio, era tenuto su da due fili neri attaccati alla mia giacca che lo tenevano fermo. L’epilogo fu sorprendente, ma anche per me; quando eseguii il movimento per farlo sparire, uno dei due fili si spezzò e il teschio iniziò a dondolare avanti e indietro come un pendolo!
Magic, Vol. 2, N. 3, Pollock & co., London, dicembre 1901.
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