La fama di Torino “città magica” risale almeno all’Ottocento: qui iniziavano i loro tour tutti i (proto)mentalisti stranieri che a teatro presentavano le più sorprendenti esibizioni di magnetismo animale, ipnosi e chiaroveggenza. Nel 1890, sulle colonne di La Civiltà Cattolica, il gesuita Giovanni Giuseppe Franco si interrogava sulle ragioni della scelta della città sabauda come teatro di tali mirabilia.
Circa il mezzo marzo del corrente anno [1890] un tale signor Pickman, piombato a Torino come un bolide, piantava palco al teatro Scribe, e per dieci o dodici sere continuava i suoi saggi di autoipnotiismo, come lo chiamano, “chiaroveggente”. Allo spettacolo trasse concorso immenso di cittadini di ogni ordine, e notantemente di quelli che per la loro condizione pubblica avrebbero dovuto astenersene. Del grande avvenimento parlavano alle turbe innumerabili cartelli affissi alle cantonate della città; le effemeridi cittadine, come già le canne di Mida, ripetevano ogni dì il nome del miracoloso giocoliere, la Gazzetta Piemontese ne diveniva come il cronista titolare; il prof. Lombroso, il paraninfo per presentarlo al pubblico, e il dottore eletto a notomizzare nel suo laboratorio le vene e i polsi dell’ipnotico per eccellenza, ed esplicare con oracoli scientifici i misteriosi fenomeni, direbbe il Cellini, al vulgo gnoro. È la seconda edizione delle ciarlatanate famose del Donato, o se vuolsi così, il secondo atto della commedia medesima. Il Pickman è belga come il Donato, come lui compare inaspettato a Torino, come lui apre bottega al teatro Scribe, come lui vede accorrer la gente, come lui vi fa danaro. Non gli manca nessun tratto di rassomiglianza, neppure quello di recarsi da Torino a Milano, e come Donato, nella capitale lombarda, e peggio a Venezia, veder gualciti nel fango gli allori di che i torinesi l’avevano incoronato.
Or perché i parabolani calatisi dalle Alpi prescelgono Torino come primo terreno da piantarci vigna? Non fu scelta certo dal Pickman per ragioni geografiche; sì per altre che importa al nostro soggetto d’indagare. Torino era la città che meno di tutte le cento sorelle doveva mostrarsi corriva. Vi durava tuttavia vivissima la memoria del Donato, che vi lasciò la rea semenza di una epidemia ipnotica, nociva alla morale e all’igiene, come affermano i medici, capolista il prof. Lombroso. Quando vi giunse il Pickman udivasi l’eco del processo famoso e della condanna del Filippa e delle sue pitonesse sonnambile, data non più che alcuni giorni innanzi, nella quale il tribunale ragionava che “la scienza attuale non ha punto appurato che una persona nello stato ipnotico possa vedere attraverso i corpi.“ Pare che questo dovesse bastare per mettere sull’aviso la buona gente e trattenerla dal gittarsi rovinosamente agli spettacoli dell’ipnotista chiaroveggente. Ma tant’è, nella patria di Gianduia basta che s’oda un po’ po’ di stamburata, e si corre a vedere. O che poco prima non s’era visto, sempre in Torino, un finimondo di pubbliche onoranze a Giambattista Bottero? Tanto benino: un po’ di rullo di tamburo aveva mossa la chiassata ammiratrice. Vi convenne l’aristocrazia politica, municipale, giudiziaria, amministrativa, finanziaria, accademica; vi concorsero quelli che meno il dovevano, quelli stessi che meno il volevano, quelli che presi altre volte a pedate nel giornale del Bottero, nessun si aspettava di trovare colà in atto di baciargli lo stivale. Certo noi sapemmo di tali che andativi come la biscia all’incanto, un po’ per melensaggine, un po’ per curiosità, un po’ per rispetto umano, un po’ per paura della setta regnante, ne tornarono mordendosi le dita, e dicendo: Ah, se l’avessi saputo prima! [...] Insomma, il Bottero riscosse onori che sarebbero stati troppi a Dante o a Galileo redivivi, e gli ebbe perché anticlericale, perché la sua penna per quarant’anni fece guerra al clero. Ecco fatti che spiegano i successi maravigliosi del Pickman a Torino. Donato e Bottero spiegano il Pickman. Ma facciamo ad intenderci. D’onde avviene che a Torino cotali fatti riescano così felicemente e trionfalmente sicuri? Devesi forse credere che tra il confluente della Dora e del Po, corra più dolce il sangue nelle vene degl’italiani? o che là i parrochi nel battesimo li tengano più scarsi di sale? o che i torinesi godano di farsi compatire alle cento città sorelle? o che la religione a Torino sia più nulla, sì che ogni passavolante, che odori d’anticlericale, vi trovi la cuccagna, il bel paese di Bengodi? Nulla, a parer nostro, nulla di cotesto. La molla occulta che tutto muove e non pare, è il tamburo, la fedeltà al rullo del tamburo. E sciaguratamente chi batte tamburo è la Massoneria, strapotente in Torino. Mentre tutti i Grandi Orienti, o i centri massonici autonomi di Firenze, Milano, Napoli, Palermo, ecc. abbassarono le armi dinanzi al Grande Oriente di Roma, il Grande Oriente di Torino si battè arrabbiatamente per non lasciarsi assorbire, e pretese di essere il solo centro regolare e legittimo d’Italia; e il suo Potentissimo Gran Maestro, dott. Timoteo Riboli, non si arrese che in questi ultimi anni. La Massoneria in Torino è, come un po’ per tutto, alleata e sposata al Giudaismo. Giudei e massoni hanno fitto gli artigli nel Municipio di Torino, nella Università, nelle Opere di beneficenza, nella Finanza cittadina, nell’Industria, nel Giornalismo. E però chiunque quivi proponga manifestazioni pregiudizievoli alla religione o alla morale, è sicuro di destare i tamburi in suo favore: la gente si mette in fila, e marche. Il popolo d’ogni grado accorre senza sospetto: ma senza nulla disdire de’ suoi principii, senza addarsi che dalla sua religione esso fa un’insalata, una mischianza irrazionale, un cibreo indigesto di bene e di male.
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