I maghi d’Italia arrivano con le loro valige misteriose. Partecipano alla riunione anche dei missionari che vogliono scoprire i trucchi dei fachiri.
Bologna, 22 maggio 1954. Trentatrè maghi di tutta Italia si sono raccolti oggi a Bologna per il primo convegno nazionale, naturalmente sotto la presidenza del più celebre, Ranieri Bustelli. «Abbiamo voluto riunirci – ha dichiarato Bustelli – per uno scambio reciproco di informazioni. Anche in Italia è stata finalmente costituita una sezione della “Fratellanza internazionale dei maghi”, esattamente l’«Anello 108». Bustelli tra i maghi è un «arrivato». È l’unico che possa permettersi il lusso di avere addirittura una compagnia. Tutti gli altri viaggiano l’Italia con una modesta valigia: la valigia tipo del mago bianco, che contiene qualche mazzo di carte, pochi dadi, dei fazzoletti colorati, qualche scatolina di monete. E con questi ferri del mestiere sono arrivati anche a Bologna, divisi in professionisti – come il trevigiano cav. Bassani, segretario del club dei maghi, e in dilettanti, come il presidente onorario dell’«Anello 108», il comm. Vincenzo Giglio, capo cancelliere della pretura di Napoli: un tipico funzionario vestito di blu con le inevitabili scarpe gialle dei meridionali. Sono arrivati anche due frati missionari che vogliono imparare a fondo l’arte per smascherare i trucchi dei fachiri quando si recheranno in India. I due frati non mancano nè a una riunione nè a uno spettacolo di varietà. E ormai se la cavano tra corde indù, palmeggiamenti, salti di carte e via dicendo, come degli ottimi dilettanti. Ma i maghi non bisogna avvicinarli troppo. Non importa se si sa che l’illusionista orientale Chung Ling Fu è in realtà un italiano di Vittorio Veneto; o che il fachiro Yarto Jova si chiama Sartori Giovanni, fu Giuseppe, da Mestre; quel che importa è non vedere i giuochi da dietro le scene, e riuscire a rabbrividire quando Sartori Giovanni si fa conficcare 20 spilloni nel collo, in una guancia, in un braccio. O tenere sospeso il fiato quando questo fachiro, che parla in veneto, entra nella sua cassa ermetica, nella quale c’è aria solo per 15 minuti, per restarvi invece per un’ora e mezzo, dopo che la cassa è stata immersa nell’acqua. È necessario poter ascoltare leggermente eccitati i discorsetti di introduzione: «Ho imparato questo esercizio dal mio maestro indiano Tahara Bey, morto a soli 26 anni mentre lo tentava per la seconda volta». I maghi non sono mai superbi. Ma sapete qual’è il vero dispiacere di questi uomini che scelgono infallibilmente una carta tra le altre cinquantadue, che estraggono un asso di cuori dal panciotto del commendatore in seconda fila o dalla borsetta della signora dell’ultima poltrona a destra? La loro delusione vera, grande, è quella di non poter giocare a carte. «Perdo sempre», diceva sconsolato uno di essi ieri pomeriggio. «Qualsiasi giocatore, anche un ragazzo, mi riduce in camicia. Perdo persino quando gioco a briscola con mia moglie. Non ho fortuna. Credo davvero che le carte non siano il mio mestiere».
Tratto da “I maghi d’Italia arrivano con le loro valige misteriose”, La Stampa, 23.5.1954.
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