Astronavi preistoriche sul menhir - Mariano Tomatis

Mariano Tomatis

Astronavi preistoriche sul menhir

La febbre per gli UFO esplosa alla fine del 1973 accende l’immaginazione. Incaricato di un reportage sul caso, Mario Bariona sale in Val di Susa con il collega fotografo Moisio. Le montagne sono coperte di neve e ai due viene un’idea: usando un bastone opportunamente modificato, realizzano alcune gigantesche impronte (“almeno il doppio di quelle umane”) su un versante del Rocciamelone. Le fotografie di Moisio finiscono nella redazione di Stampa Sera e il 5 dicembre 1973 conquistano un titolo a sei colonne.

Bariona, che anni dopo confesserà la burla in privato, viene subito emulato da un collega. Se un’impronta sulla neve sparisce in fretta, un’incisione sulla pietra dura a lungo: Nevio Boni - anch’egli cronista di Stampa Sera - sale sul Musinè dalla frazione di Milanere, adocchia un menhir e vi realizza in segreto una suggestiva incisione.

Nella peggior tradizione italiota, le reazioni alla sua opera sono rigorosamente bipartisan: c’è chi avanza ipotesi archeologiche e chi teorie fantascientifiche. Sbagliano entrambi: troppo spesso ci si dimentica dei burloni, i cosiddetti trickster, cui piace confondere le carte e portare alla luce le contraddizioni.

Nevio Boni confesserà nel 1988 («Tutti i graffiti misteriosi sul Musinè l’ai faje mi (1) .» (2) ) ma questo non impedirà a Giuditta Dembech di riprodurre - venticinque anni dopo! - il menhir di Boni sulla copertina del libro Il Musinè (2013) e offrirne due letture opposte:

La lettura ufologica

Dobbiamo tornare indietro di molti secoli, fino alla preistoria, per risalire al primo avvistamento [UFO] documentato, avvenuto probabilmente in epoca neolitica. […] La cronaca dell’avvistamento è graffita su una grande pietra, alta circa un metro e mezzo. […] Tre omini levano le braccia verso il cielo, uno di essi pare inginocchiato o comunque reclinato su un lato, un altro ancora pare riverso per terra, forse morto, o ferito, o sacrificato… Nel cielo, sopra alle loro teste sono raffigurati tre “soli” di dimensioni diverse. Quello in primo piano, il più grande e più vicino a loro è raffigurato tagliato a metà, mentre quello più a sinistra è la classica raffigurazione del disco solare in pieno splendore: un cerchio con un puntino al centro. […] Visto in chiave ufologica, sembrerebbe davvero la cronaca di un passaggio insolito nel cielo. (3) 

La lettura archeologica

Il segno circolare che racchiude una minuscola coppella, è la classica raffigurazione dell’astro allo zenith, simbolo comune a molte civiltà preistoriche. L’incisione poco più in alto; dove il sole appare come un semicerchio, indica la sua posizione al tramonto, mentre quella in primo piano dovrebbe essere l’alba. Probabilmente il sole in primo piano è più grande perché il momento in cui l’astro appare all’orizzonte è sempre stato estremamente sacro e solenne. L’alba significava che, almeno ancora per quel giorno, la terra non sarebbe rimasta immersa nelle tenebre. Il tramonto al contrario, rappresentava un momento cruciale. Sprovveduti e indifesi com’erano, gli uomini dovevano vivere nel terrore di non veder più spuntare l’astro il giorno seguente. Ed ecco i personaggi del graffito in posizione di adorante supplica perché non scompaia all’orizzonte. (4) 

Sono entrambe sbagliate, certo, ma qui siamo alla sagra della fantarcheologia di quart’ordine.

I due libri di Giuditta Dembech sul Musinè datati 1983 e 2013.

Il massimo del disimpegno lo troviamo in chiusura, dove la scrittrice conclude pilatesca:

Come diceva Hitchcock tagliando il finale dei suoi film: “…e adesso pensatela come volete.” (5) 

Per fortuna c’è Andrea Arcà, del Gruppo Ricerche Cultura Montana. Nel suo libro sulle incisioni rupestri in Val di Susa lo studioso prende una posizione netta ma non priva di argomentazioni sottili:

Interpretato sia come raffigurazione di culto solare che come testimonianza di “incontri ravvicinati”, si rivela in realtà di esecuzione contemporanea e goliardica. […] Il segno dell’incisione è più chiaro rispetto alla superficie circostante. Vi è in sostanza assenza di “patina”. Se noi incidiamo una pietra notiamo effettivamente come la zona incisa risulti più chiara, dato che l’incisone asporta lo strato superficiale e mette a nudo la parte non alterata dall’esposizione al sole e dagli agenti atmosferici, detta appunto “patina”. Tale patina si forma in genere nell’arco di uno o due secoli, a seconda della roccia e dell’esposizione. Ciò è ben visibile negli insediamenti in pietra, dove le date e le iniziali scolpite, risalenti per lo più al secolo scorso, mostrano già nel segno inciso una colorazione di patina uguale a quella esterna. (6) 

Approfondimenti

• L’articolo “Strane orme in Val Susa”, Stampa Sera, 5 dicembre 1973 è disponibile nell’archivio de La Stampa (leggi)

• La scheda del menhir (codice SUS 99) sul sito ufficiale del Gruppo Ricerche Cultura Montana (vedi)

Note

1. “Li ho fatti io” in dialetto piemontese.
2. Famiglia Cristiana 13/1988, p. 61.
3. Giuditta Dembech, Il Musinè, Ariete, Torino 2013 (I ed. 1983), pp. 22-24.
4. Giuditta Dembech, Il Musinè, Ariete, Torino 2013 (I ed. 1983), p. 26.
5. Giuditta Dembech, Il Musinè, Ariete, Torino 2013 (I ed. 1983), p. 29.
6. Andrea Arcà, La pietra e il segno. Incisioni rupestri il Valle di Susa, Tipolito Melli, Susa 1990, pp. 76 e 126.

Tutto il materiale di questo sito è distribuito con Licenza Creative Commons BY-NC-SA 4.0