Mariano Tomatis

Esiste un “inganno etico”? Qualche riflessione tra il Santo Graal e il Rocciamelone

Quando percorrevo i sentieri intorno a Torre Canavese con la BMX, la mia meta preferita era il pilone di Caraver. L’edicola votiva di fine Ottocento mostrava in un angolo un calice dorato. L’affresco era gravemente danneggiato, ma i (pochi) dettagli visibili richiamavano la deposizione di Cristo dalla croce. Sedotto dalla saga di Indiana Jones – e in particolare dal suo terzo episodio – riconoscevo in quella coppa il Santo Graal, il mistico oggetto che aveva raccolto il sangue di Gesù morente.

Uno storico dell’arte mi avrebbe tirato le orecchie, facendomi notare il serpente che usciva dal calice. In mano all’Evangelista, il simbolo faceva riferimento a un miracolo narrato nei Vangeli apocrifi: mentre si trovava a Efeso, San Giovanni sarebbe sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento. Ignaro della faccenda, fantasticavo di trovarmi di fronte a un indizio: una X sulla mappa, in grado di condurmi all’antro in cui riposava il Graal.

Ci credevo solo a metà. Parte di me sapeva trattarsi di un’ipotesi insostenibile. Eppure non volevo sottrarre al luogo la sua forza magnetica. Come Fox Mulder, avevo fissato alla scrivania le parole “I want to believe”; alla passività di un “ci credo” preferivo un più attivo “voglio crederci”. Cercavo una sintesi tra incanto e disincanto, sognando con un occhio chiuso e l’altro aperto.

A metà degli Anni Novanta documentai l’ipotesi in un noioso compendio storico: Il Santo Graal a Torre Canavese (1996) era una collezione di fatti rigorosamente documentati – benché accostati in modo forzoso – riportati con l’intento di “dimostrare” che il calice di Cristo aveva lasciato la Terrasanta per raggiungere le colline piemontesi. Ciascun tassello dello scenario reggeva alla verifica storica; erano i connettivi a fare acqua da tutte le parti. Nel 1190 c’era davvero un nobile piemontese sul trono di Gerusalemme. Era altrettanto documentato l’interesse della sua famiglia per poeti e trovatori provenzali – l’ambiente letterario in cui maturarono le leggende sul Graal. Sfruttando i Marchesi di Monferrato per condurre nella mia regione la reliquia, spiegai che il viaggio avvenne (“presumibilmente!”) per mano di Guglielmo VI, che nel 1225 avrebbe sottratto la coppa ai Cavalieri Templari per custodirlo in un primo tempo a Ivrea, nella chiesa di Sant’Ulderico. Da qui, il calice “sarebbe stato trasferito” a Torre Canavese all’inizio del XV secolo e poi nascosto sulle colline dietro il paese.

Alcune reazioni a Il Santo Graal a Torre Canavese sulla stampa locale.

L’effetto di verità complessivo emergeva dall’imponente mole di vicende citate, ognuna con la sua rigorosa nota a piè pagina: il tutto aveva la stessa funzione della luce abbagliante, sfruttata dai prestigiatori per nascondere i trucchi; i fili da offuscare erano gli avverbi dubitativi, i verbi al condizionale e i connettivi tipici dell’argomentare complottista (“nulla consentirebbe di collegare i due elementi, ma se lo facciamo, le conclusioni che ne seguono sono interessanti…”).

Che si trattasse di un gioco di prestigio era svelato nella postfazione: confessando di aver violato tutte le norme che dovrebbero guidare il lavoro dello storico, mettevo in guardia di fronte ai libri che facevano lo stesso senza ammetterlo. In mente avevo Il Santo Graal (1982) di Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, il best seller che aveva lanciato a livello internazionale l’enigma di Rennes-le-Château, sostenendo che Gesù e Maria Maddalena si erano sposati e le prove fossero nascoste nella chiesa del villaggio; c’era un olezzo nazistoide nell’idea che il Santo Graal fosse letteralmente il “sang real”, la sostanza divina che – scorrendo nelle vene della dinastia di Cristo – avrebbe fornito un fondamento biologico alla superiorità di alcuni individui, giustificandone le pretese di restaurare una monarchia mondiale illuminata.

Con Il Santo Graal a Torre Canavese non volevo ingannare il lettore: mi ponevo il duplice intento di metterlo in guardia dalle derive pseudostoriche e consentirgli di sognare con me di fronte al pilone, invocando la sua complicità nell’aderire a quella che ammettevo essere un’inverosimile bugia.

Diciotto anni dopo, approfondendo il materiale elaborato nell’alveo della Wu Ming Foundation, mi resi conto che le stesse dinamiche erano da tempo oggetto di studio e sperimentazione sul campo da parte di un laboratorio permanente: Wu Ming 1 avrebbe usato l’espressione “mostrare la sutura” per descrivere la funzione della mia postfazione, e negli anni successivi avremmo scoperto insieme quanto fossero rilevanti alcune riflessioni teoriche maturate nell’ambito dell’illusionismo.

Dopo aver letto L’armata dei sonnambuli (Einaudi 2014) e approfondito i lavori di Robert Darnton, ho concentrato i miei studi sull’illusionismo nell’epoca della Rivoluzione Francese, scoprendo che l’apparente ossimoro di un “inganno etico” agitava il sonno dei prestigiatori sin dalla fine del Settecento.

Nella Parigi del 1792 il mago Philidor presentava spettacoli di fantasmagoria, evocando a teatro gli spiriti dei defunti. Per mettere in scena un’illusione efficace, la lanterna magica con cui il prestigiatore proiettava i fantasmi doveva restare nascosta, ma perché la performance risultasse accettabile al pubblico dall’Età dei Lumi era necessario inquadrarla come un’opportunità didattica. Svelare il trucco avrebbe sottratto alle apparizioni ogni fascino; allo stesso tempo, una messa in scena troppo realistica sarebbe stata deprecabile. Per mostrare la sutura senza rompere l’incantesimo, Philidor concludeva lo spettacolo con un’apparizione talmente caricaturale da riportare tutti con i piedi per terra; come raccontava uno spettatore, “l’ingegnoso fisico termina questa strana rappresentazione facendo apparire il diavolo, cioè la caricatura grottesca immaginata dai sicofanti in saio e mitria per mettere paura alle donnette e ai bambini; questo spettro [...] cambia lo stupore in riso e finisce per liberare dall’incantesimo [”désensorceler“] lo spettatore”. (1) 

In una recensione, il Journal Politique riconosceva l’abile equilibrismo di Philidor, scrivendo che il mago “riproduce[va] tutti gli effetti magici di Cagliostro ma, lungi dall’ingannare il pubblico, si pone[va] l’obiettivo di illuminarlo, dimostrando che tutti quegli effetti si basano su principi puramente fisici” (2) . Il mago rendeva esplicita l’oscillazione sin dall’inizio dello spettacolo, annunciando al pubblico: “Non voglio ingannarvi, ma saprò stupirvi”  (3) .

Christlieb Benedict Funk, Natürliche Magie, Bey Friedrich Nicolai, Berlino 1783.

Dimostrava la stessa preoccupazione il mago Calzolaro, protagonista de “Il teschio” di Friedrich August Schulze, uno dei racconti dell’antologia Fantasmagoriana (1812). Dovendo evocare uno spirito, l’illusionista spiegava al proprio assistente la serie di stimoli opposti cui avrebbero sottoposto il pubblico durante lo spettacolo: “Bisognerà aumentare il terrore della scena con ogni sorta di mezzi. [...] Bisogna che gli spettatori provino un po’ di sudore freddo, così che, quando arriverà la spiegazione, abbiano a ridere della loro stessa paura. Perché, se tutto andrà come previsto, nessuno sfuggirà dal provare un certo fremito di terrore” (4) . Lo spettacolo includeva brivido e spiegazione del trucco, tensione e umorismo liberatorio, emozioni contrastanti – quasi che le une servissero da cura e antidoto per le altre (ma non sappiamo se si intendessero le risate una cura per la paura o viceversa).

Una sutura particolarmente evidente si trova in una guida turistica parigina del 1798, accanto all’annuncio degli spettacoli di fantasmagoria di Etienne-Gaspard Robertson. Se da un lato si pubblicizzava la sua capacità di evocare i defunti, una nota metteva in guardia gli spettatori: “È falso che possa far apparire i propri cari su richiesta… a meno che gli forniate un ritratto del defunto” (5) . Il testo stimolava la curiosità e lo scetticismo allo stesso tempo, catturando l’attenzione del lettore ma suggerendogli che Robertson potesse produrre il fenomeno solo grazie a uno stratagemma. Egli, in effetti, aveva bisogno di conoscere le fattezze del defunto per poterne ritrarre l’aspetto sul vetrino da collocare nel suo proiettore. Poiché svelare il trucco avrebbe rotto l’incantesimo, l’annuncio si fermava sulla soglia senza spiegare il metodo in dettaglio.

Immagine da una fantasmagoria teatrale di Robertson tratta dalle Mémoires Récréatifs, Scientifiques et Anecdotiques du Physicien-Aéronaute E.G. Robertson, Vol. 1, Parigi 1831. L’artista offriva anche evocazioni medianiche private.

Il dibattito sullo spoiler finì perfino sui giornali. Il 1° gennaio 1800 un certo dottor Laurent aveva annunciato di aver scoperto il segreto dell’invisibilità: il pubblico era invitato al secondo piano di un edificio in rue des Prêtres, dove Françoise, la giovane figlia del medico, conversava con i presenti dall’interno di un cofano di vetro apparentemente vuoto. Nonostante fosse presentato come frutto di una scoperta scientifica, il fenomeno era frutto di un elaborato gioco di prestigio. La promessa del dottor Laurent era mantenuta solo in parte, perché la ragazza spariva solo nel senso che era nascosta in modo ingegnoso. Né il complicato marchingegno era uno strumento didattico progettato per rendere il pubblico consapevole dei propri limiti percettivi: il suo obiettivo era ingannare gli occhi, sfidare la logica e massimizzare lo stupore. Laurent metteva al centro il Meraviglioso, progettando quella che restava una mera simulazione (per quanto accurata) di un fenomeno magico.

A incaricarsi di fare debunking fu il signor Dupand, un fabbro infastidito dall’inganno, la cui bottega sorgeva nella stessa via. Scoperto il trucco, lo svelò nei dettagli sulle pagine del Journal de Paris (10.3.1800). Non tutti, però, ne apprezzarono il contributo demistificatorio.

Il quotidiano L’ami des lois si schierò a difesa del dottor Laurent, rivendicando il diritto a una certa discrezione intorno ai trucchi, specie quando a presentarli erano illusionisti indigenti: “[Dupand] sarebbe stato più generoso a non pubblicare le sue osservazioni su un giornale. Non credo che il signor Laurent presenti la ragazza invisibile come un fenomeno sovrannaturale, ma più semplicemente come un marchingegno costruito con una certa cura estetica. […] Perché privare gli spettatori dell’interesse e della curiosità che li ha condotti alla ragazza invisibile, e perché togliere al signor Laurent la propria fonte di reddito?” Assumendo una prospettiva di classe, il giornale citava L’Emilio di Rousseau: Dupand “merita lo stesso rimprovero che il maestro dell’Emilio aveva fatto al proprio studente quando costui aveva divulgato – a spese di un povero illusionista – il trucco fisico con cui il mago riusciva ad attirare una piccola anatra galleggiante verso un pezzo di pane” (L’ami des lois, 11.3.1800).

Coppia di anatre magnetiche esposte al Museo Galileo di Firenze.

Henri Decremps aveva affrontato il dilemma nel Testament de Jerome Sharpe (1786), dopo aver spiegato come improvvisare lunghe poesie in versi. Il metodo consisteva nel ricombinare una serie di moduli imparati a memoria (i cosiddetti passe-partout) fingendo di comporre i testi sul momento. Lo stratagemma consente di simulare doti di improvvisazione molto maggiori di quelle effettive – almeno agli occhi degli spettatori ignari della tecnica. Ma cosa si risponde a chi, conoscendo il trucco, chiede apertamente: «Usi i passe-partout per improvvisare?»

Riconoscendo che si tratta di una domanda imbarazzante, Decremps sconsiglia sia di ammetterlo, sia di negarlo. Nel primo caso il performer “rovinerebbe il piacere dell’illusione in chi è ormai disposto a riconoscergli doti eccezionali”. Se però negasse di usare quel trucco, “rischierebbe di creare disappunto negli spettatori più colti, consapevoli che è impossibile comporre versi in quel modo senza usare strutture linguistiche pronte all’uso”. La via d’uscita è un sapiente modo di salvare capra e cavoli: l’artista deve dire la verità in versi, ammettendo di usare i passe-partout ma fingendo di improvvisare anche in questa occasione (recitando, in realtà, un testo in rima memorizzato in precedenza). Mentre gli spettatori più avveduti apprezzano la sincerità e l’originale modalità dell’ammissione, gli altri sentono l’ennesima risposta in versi a una domanda imprevista e ne interpretano il contenuto come una replica ironica; la risposta in rima dimostra, alle orecchie di questi ultimi, l’esatto contrario di quanto afferma – come quando si dice «Sì… sì…» in tono sarcastico, con l’intenzione di negare qualcosa (6) .

Alcuni passe-partout proposti da Henri Decremps nel suo manuale di trucchi “che si possono eseguire senza spesa alcuna”, tra cui quelli relativi all’arte “di comporre canzoni impromptu”.

“Dire la verità in versi” mi sembrava un buon programma quando, l’estate scorsa, mi accinsi a scrivere la prefazione a un libro di folklore sul monte Rocciamelone. Lessi la prima volta Roc Maol e Mompantero (1897) nei primi anni Duemila, disponendomi nello stesso atteggiamento lucidamente onirico con cui raggiungevo il pilone del Graal con la bicicletta. Il giorno in cui avessi voluto percorrere i sentieri della montagna valsusina, quel libro sarebbe stato un prezioso alleato della mia immaginazione: l’autrice Matilde Dell’Oro Hermil segnalava presenze magiche, riportava leggende suggestive e indicava curiose anomalie; non individuava un oggetto specifico da ricercare, ma costringeva il lettore a confrontarsi con molteplici possibilità: forse il Rocciamelone nascondeva grotte segrete, portali multidimensionali, anime di defunti erranti, tracce di insediamenti gnomici, giacimenti di pietre verdi, segni di civiltà preistoriche più avanzate della nostra…

Stampato dorso-a-dorso con il libro di Hermil, oggi Il codice Dell’Oro (Tabor 2018) riporta – insieme a due testi di Davide Gastaldo e Filo Sottile – il mio tentativo di “dire la verità in versi” intorno al saggio di fine Ottocento.

Roc Maol e Mompantero nelle tre edizioni 1893, 1897 e 2018.

La mia prefazione si sviluppa intorno alla domanda Roc Maol e Mompantero è, in realtà, una mappa del tesoro?” e ha un andamento apparentemente schizofrenico. All’interrogativo, riproposto più volte, fornisco risposte diverse, perfino in contraddizione tra loro. In apertura lo nego in modo netto: la nobildonna segusina non aveva alcuna intenzione di codificare nelle sue pagine il tragitto che avrebbe condotto a un tesoro. È la prosaica verità da cui non si può prescindere. Le pagine successive arricchiscono lo scenario di elementi, chiarendo il contesto in cui il libro fu scritto, approfondendone i retroscena ideologici e portando alla luce connessioni inaspettate; il mio obiettivo è di guadagnare lo spazio per riproporre la stessa domanda e concedermi una risposta più obliqua e possibilista.

Come un illusionista che chieda al pubblico il permesso di illuderlo, mi propongo di accompagnare il lettore in una regione di incanto lucido, un luogo dove sia lecito rispondere in modo positivo alla domanda iniziale; l’invito è di ritagliarsi consapevolmente una dimensione in cui Roc Maol e Mompantero è – a tutti gli effetti – una mappa del tesoro.

Un’operazione non ispirata da alcuna nostalgia per l’innocenza di uno sguardo infantile sul mondo; détournare il lavoro di Matilde Hermil – e farne il materiale per un gioco di ruolo da svolgersi in scala 1:1 sul Rocciamelone – è un modo per farne a pezzi la mefitica ideologia sinarchica che ne pervade ogni pagina.

Devo l’istinto iconoclasta a “Siamo tutti Breckenridge”, una riflessione di Wu Ming 1 intorno a un racconto di fantascienza di Robert Silverberg del 1973. (7)  A partire dall’idea di Frank Boas secondo cui i mondi mitologici sarebbero frammentabili e ricomponibili all’infinito, Wu Ming 1 suggeriva di opporre al pensiero reazionario e sapienziale una gioiosa distruzione e ricombinazione dei miti. Come cura per le “idee senza parole”, presentate da Matilde Hermil (e più in generale dalla destra culturale, da Eliade a Guénon) come entità statiche, eterne e indiscutibili, Il codice Dell’Oro individua in una consapevole torsione ludica – e nella sua sintesi tra ragione ed emozione – una vaccinazione necessaria e un antidoto efficace.

Note

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