Manuela Grippi

Il nostro mestiere? Una strana faccenda

La scorsa settimana ho sperimentato qualcosa che potrebbe facilmente portare un uomo comune verso la schizofrenia: in meno di quarantotto ore sono passata – come interprete – attraverso una dozzina di vite. Sono “diventata” una dozzina di vite, plasmandomi in materia da restituire agli altri.

Sono stata una detenuta, nel vento secco di una ricostruzione di Auschwitz nel cielo aperto di una vecchia stazione dismessa. Ho incrociato gli sguardi minacciosi delle sentinelle naziste che – come rapaci – mi volteggiavano intorno traghettandomi agli inferi.

Forse non è più quel lager, ma fa freddo lo stesso. Ho freddo, e mi trema tutto mica solo i denti, ma non per questo smetterò di credere che un giorno ce la faremo ad uscire da questo inferno. Lo dobbiamo alle nostre bambine, là fuori.

Il giorno dopo, la giostra continua a roteare. Nuovo giro, nuova storia. Ora c’è Wu Ming 1 seduto su una comoda poltroncina, proprio di fronte ai miei occhi. Mi osserva curioso, mentre plano non troppo dolcemente nel suo 1793 armato di sonnambuli.

Ora, caro Roberto Wu Ming 1 nonsocosaltro, non sono più una detenuta, come qualche ora fa, né la Manuela che ti hanno presentato. Puoi chiamarmi Marie – ma che te lo dico a fare, che mi hai scritta tu? Ma io sto parlando con gli altri, con il pubblico. Ti dice qualcosa? Sono in piena Rivoluzione Francese, facevo la magliara, ma ora combatto con manici di scopa e coltellacci da cucina al fianco di quei fannulloni dei nostri uomini. No, da qui le amiche della cicciona “culoastrisce” non passeranno. Sapete dove gliel’ho infilato questo spillone?

Buio.

Iniziano a capitare magie. C’è anche una medium, che dice che la morte non è una livella. Lei mica ci parla con i defunti che hanno parenti poveracci.

Veniamo abbagliate da lampi luminosi che provengono dal buio spesso davanti a noi. Se non fossimo nel 1793 penserei che potrebbe trattarsi di flash di macchine fotografiche, invece mi convinco che è solo l’ennesima affascinante magia.

Poche ore dopo, eccomi in gara. La prima fase di un concorso di storytelling dal lato opposto della città. Alle spalle il lager, i forconi, resta qualcosa in me di umano?

Butta via tutto, sei una cagnolina, ora. Hai un’altra voce, un altro accento.

Sei dispersa, fra gli odori agrodolci del mercato siciliano di Ballarò, e stai fantasticando sul tuo audace amor perduto.

Qualcosa va storto ma non per la ragazza che ti sta prestando la sua voce. Grazie a te ha vinto la serata, e passerà in finale.

Aspetta, non sono io quella ragazza?
C’è quel copione sulla mensola che devi preparare da un po’, secondo te fregaqualcosaaqualcuno di chi sei tu?

Settimane come questa lasciano in noi un po’ di confusione.

Tutto ciò che leggi, che studi e che restituisci agli altri ti lascia inevitabilmente qualche pezzetto dentro. Scaglie, cristalli, duroni talvolta.

Come quando mangi qualcosa di buono che però non digerisci del tutto e ogni tanto ti viene su, anche se non vuoi.

Questo mi fa pensare ad una cosa: dovremmo voler bene agli attori.

E non lo scrivo per difendere la categoria – nonostante sia una di quelle più bistrattate della storia, spesso accomunata a un hobby oppure associata distrattamente a lussuosi e patinati salotti da jet set. Dovremmo voler bene agli attori perché non sanno mai nemmeno loro veramente chi sono e perché dovrebbero meritarsi il bene di qualcuno.

Ogni volta ricominciano la conta da capo. Si portano dietro i pezzetti delle vite degli altri, come senzatetto che – stanchi e meticolosi – si trascinano le poche e preziose cose che hanno. Quando meno te lo aspetti, però, sanno sistemarti tutto in bella mostra sul tappeto: puoi prendere ciò che vuoi, loro sono lì per questo.

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